Maghi, ancelle e assassini. Nell’oscuro mondo di Margaret Atwood

a cura di Isabella Weber

A pochi mesi dall’uscita su Tim Vision della fortunata serie Il racconto dell'ancella (The Handmaid’s Tale) e de L'altra Grace (Alias Grace) su Netflix, il Noir in Festival porta in Italia Margaret Atwood per assegnarle il prestigioso Raymond Chandler Award. Prolifica e multipremiata romanziera, attenta critica letteraria, ambientalista e femminista sui generis, Atwood sfugge con scaltrezza i tentativi istituzionali di etichettarla, rifiutando di lasciarsi chiudere in una categoria: «Non dite agli artisti cosa devono fare».

In occasione della sua visita a Milano, prima di ritirare il premio a Como, Atwood ha incontrato il 6 dicembre i suoi entusiasti lettori, alla IULM per dialogare con studentesse e studenti insieme ad Antonio Scurati e Nicoletta Vallorani, e nel pomeriggio alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli insieme a Chiara Valerio.

Il nuovo romanzo Seme di strega (Hag Seed) è una riscrittura in chiave contemporanea de La Tempesta di Shakespeare in cui un regista esiliato (Felix/Prospero) utilizza la messa in scena de La tempesta come strumento per la propria vendetta. In un saggio sul ruolo dell’artista pubblicato nel 2002 (Negotiating with the dead. A writer on writing), già utilizzava la metafora del mago per spiegare la posizione dell’artista.  Qual è per lei il ruolo dell’artista nella nostra società?
«Nel mio saggio paragonavo tre figure di maghi: il mago di Oz, una brava persona ma un pessimo mago, Mefisto, un bravo mago ma una persona cattiva e infine Prospero che si colloca nel mezzo. Credo che la figura di Prospero abbia sempre affascinato gli artisti proprio per la sua ambiguità: utilizza la sua magia a fin di bene? Dipende dal punto di vista che adottiamo: secondo i suoi prigionieri, Calibano su tutti, sicuramente no. Ma Prospero è allo stesso tempo artefice e prigioniero della propria messa in scena. Come va utilizzata la magia (e la scrittura)? Nei miei lavori io uccido un sacco di personaggi ma vi rivelo un segreto… - bisbiglia al pubblico - non muoiono davvero! Il motivo per il quale autori e lettori sono così affascinati dal delitto è che la morte ci affascina, ci riguarda tutti ma quando leggiamo di morti violente non ci sentiamo chiamati in causa, siamo fuori pericolo. Inoltre nei gialli i colpevoli tendono ad essere presi, il che è estremamente rassicurante. Noi scrittori siamo investigatori sulla pista del racconto».

Uno dei primi nodi tematici a venire al pettine nei diversi incontri è il suo controverso rapporto con il termine "femminismo".

«Se sei una donna e scrivi di donne in maniera onesta, sei automaticamente classificata come femminista ma la verità è che non si può parlare di donne prescindendo dalla loro condizione di disuguaglianza. Quando mi si chiede se sono femminista, chiedo sempre al mio interlocutore cosa intenda. Se essere femministi vuol dire pensare che le donne siano angeli, o che siano superiori agli uomini no, non sono femminista. Se invece decliniamo il femminismo in termini di diritti legali e civili è più semplice. Per me le donne sono essere umani. Forse sarebbe più utile parlare di persone che sono uomini e persone che sono donne, senza creare delle distinzioni tanto determinate: se questo è il senso del femminismo allora sì, sono femminista. Per quanto riguarda le ondate storiche del femminismo, non posso dire di esserne stata profondamente influenzata, anche per motivi biografici: sono nata nel 1939, troppo giovane per il movimento per il voto e troppo vecchia per quello del Sessantotto. Aggiungiamo poi che sono cresciuta nei boschi ed educata in maniera molto egalitaria. Simone de Beauvoir semplicemente non descriveva il mio mondo. Questa nuova, terza ondata di femminismo, riguarda soprattutto il tema della violenza sulle donne che non è di per sé un fatto nuovo ma adesso, grazie anche al ruolo dei social, se ne parla apertamente. Non so cosa riuscirà a ottenere questo movimento ma mi sembra una buona occasione per fermarci a riflettere su come dovrebbe essere la società che vorremmo».

Il racconto dell’ancella (The Handamaid’s tale), scritto all’inizio degli anni Ottanta, racconta molto degli Stati Uniti di oggi. Da dove nasce l’ispirazione?
«Sono un’appassionata di Storia, nella mia libreria c’è un intero scaffale dedicato alla peste ad esempio. Quello che mi interessa della Storia non sono tanto i Napoleoni quanto le persone comuni, soprattutto quando si trovano ad affrontare situazioni del tutto fuori dal comune. Ci piace pensare che in circostanze straordinarie ci comporteremmo in modo etico ma probabilmente non sarebbe così. Sono abbastanza vecchia da aver conosciuto persone che sono state nelle resistenze e una di loro una volta mi ha detto: "Prega di non avere mai l’occasione di diventare un eroe".  L’ispirazione per il romanzo l’ho trovata nell’analisi dei regimi teocratici nella storia americana e studiando le diverse concezioni di utopia e distopia che si sono succedute a partire dalla Prima Guerra Mondiale. Se si sposta il punto di vista sulle donne, la Storia cambia. Studiando i regimi ci si rende conto che nulla accade improvvisamente, ci sono lunghi periodi di agitazioni sociali e la diffusione di un clima di paura che convince le persone a rinunciare a qualche libertà in cambio di un’ipotetica maggiore sicurezza. Che cosa succede quando, come nella rivoluzione bolscevica, l’utopia arriva al potere e ci si accorge che il mondo non è affatto diventato perfetto? Negli anni Ottanta leggevo molti articoli che sostenevano che le donne dovessero stare a casa. Visto che prendo sul serio i programmi politici, mi sono chiesta come un progetto del genere avrebbe potuto essere messo in pratica: avrebbero dovuto tagliare i conti in banca da un giorno all’altro, togliere le donne da tutti i posti di lavoro… ed ecco Il racconto dell'ancella».

Nel passaggio dal romanzo alla versione cinematografica di Volker Schlöndorff (1990) e poi alla serie televisiva adattata da Bruce Miller (2017), quali sono gli cambiamenti più importanti avvenuti ne Il racconto dell'ancella?

«La sfida principale degli adattamenti è stata quella di rendere in maniera cinematografica il monologo interiore della protagonista. Nel romanzo quello della protagonista, l’ancella Offred, è l’unico punto di vista che conosciamo. Per il film di Schlöndorff, Harold Pinter che ha curato la sceneggiatura aveva previsto un intero monologo in voice over per la protagonista, e Natasha Richardson ha girato le scene dopo aver registrato quel monologo che poi invece è stato tagliato in fase di montaggio. Nella serie, invece, oltre a sfruttare tutto il potenziale espressivo di Elisabeth Moss, hanno utilizzato il voice over per esprimere i  pensieri che Offred è costretta a celare e hanno aperto la storia al punto di vista degli altri personaggi, uscendo così dalla testa della protagonista».

Qualche anticipazione sulla seconda stagione della serie?
«Posso dirvi che uno dei personaggi principali del romanzo, la madre di Offred, che non era presente nella prima stagione entrerà in scena nella seconda».

In un’intervista al «Paris Review» nel 1990 ha detto che la malattia mentale degli Stati Uniti è la megalomania, mentre quella del Canada è la schizofrenia paranoide. Crede sia ancora così?
«Oggi gli Stati Uniti sono senza dubbio anche paranoici. Mi sembra che la Storia abbia fatto un giro 360° e, come è avvenuto in passato con gli schiavi afroamericani e poi con disertori della guerra in Vietnam, il Canada si trova a essere oggi un paese che accoglie persone che fuggono dagli Stati Uniti. Quando Trump dice di voler rendere di nuovo grande l’America, mi chiedo a quale periodo precedente si riferisca... Grande come? Indubbiamente viviamo un momento storico di inquietudine globale. Se fossimo in un’epoca diversa risolveremmo tutto con un matrimonio tra Trump e la figlia di Kim Jong II ma purtroppo non sembra probabile. Questa ansia generalizza la rivedo delineata nelle diverse reazioni che i lettori de Il racconto dell'ancella hanno avuto in parti del mondo diverse. In Inghilterra, negli anni Ottanta, lo hanno preso come un romanzo di puro intrattenimento: c’era ancora il clima della Guerra Fredda e in Europa non si voleva vedere nell’America altro che la patria della libertà e della democrazia. I canadesi invece si sono interrogati sulla possibilità che questa storia potesse capitare a loro mentre negli Stati Uniti si chiedono solo quanto tempo gli rimane».


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