Nelle rievocazioni di Viareggio 1992, il Noir in Festival non poteva dimenticare la presenza del regista di Naked City e Du rififi chez les hommes, in veste di presidente della giuria internazionale di quell’edizione. Un’intervista di François Truffaut e Claude Chabrol del 1955.

Un grande filmmaker, ingiustamente sottovalutato. È Adrian Wootton a introdurre con queste parole agli studenti e appassionati cinefili, il passato e l’evoluzione di un regista cardine per il cinema noir: Jules Dassin. Un indiscusso maestro del genere che, come ricorda Giorgio Gosetti, direttore del Noir, ha presieduto la giuria dell’edizione 1992. Wootton, in collegamento, ha aperto le porte al passato di un regista che ha fatto del realismo un suo marchio di fabbrica, le cui radici artistiche si intrecciano con il mondo del teatro. Piccoli frammenti che uniti l’uno all’altro, permettono di ricostruire la storia e l’eredità artistica di Jules Dassin.
Per l’occasione ripubblichiamo un estratto del catalogo del 1992 che, a sua volta, riproponeva una lunga intervista di François Truffaut e Claude Chabrol con Jules Dassin, uscita per «Les Cahiers du Cinéma» nel 1955.

A COLLOQUIO CON JULES DASSIN
Estratto da «Les Cahiers du Cinéma», n. 46, 1955.
a cura di François Truffaut e Claude Chabrol

The Naked City
Avevo accettato di fare The Naked City malgrado la sceneggiatura, perché speravo di poter finalmente girare un film come avevo sempre sognato. Avevo detto di sì, a condizione che mi lasciassero girare per le strade di New York, in interni dal vero, con degli sconosciuti. Accettarono, ma proprio in quel momento ebbe inizio l’epoca buia di Hollywood. Uno degli sceneggiatori, Albertz Maltz, venne arrestato. Si era istaurato un clima di terrore. Poiché il nome figurava sulla sceneggiatura, fummo costretti, non dico a fare dei tagli, ma a enucleare la parte centrale. Il montaggio di The Naked City, infatti, era stato spaventosamente difficile: io stesso vi avevo lavorato per dieci settimane, giorno e notte, ma alla fine avevamo dovuto togliere tutto. Quando vidi il film per la prima volta mi venne voglia di mettermi a piangere per la vergogna. Non lo dimenticherò mai. A Hollywood, il regista non è autorizzato a montare il proprio film: può fare il primo montaggio, dopo di che è il direttore della produzione a decidere. Ero membro del comitato sindacale e avevo proposto di inserire nei contratti una clausola per permettere ai fu­turi registi di montare i propri film. Agli studios mi risposero: «Siamo pronti a spendere dieci, venti milioni di dollari per combattere questa proposta: sta a lei vedere se pensa di riuscire a contrastarci». Dopo la triste esperienza di The Naked City, per molto tempo non feci più film. Dissi basta e decisi di tornare a New York. Dal punto di vista commerciale, il film fu un enorme successo.

Può spiegarci che differenze c’erano tra The Naked City che lei ha girato e il film che abbiamo visto.
Certo. Ciò che colpisce a New York sono i contrasti: l’enorme ricchezza e la miseria. Ho quindi costruito il film su tali contrasti. Per esempio, proprio nel centro del Bowery – una zona dei bassi fondi, un vero quartiere di barboni – c’è il centro più importante del mondo per lo scambio dei diamanti; è un negozio con un’enorme vetrina piena di diamanti a caro prezzo e un cartello che dice: «The greatest diamond exchange in the world». Avevo inquadrato il negozio con tutti i diamanti e, in primo piano, due barboni che facevano un baratto: la scarpa dell’uno contro il cappello dell’altro. Hanno tagliato l’inquadratura. Poi, un albergo di un quartiere miserabile; si vedeva passare della gente ricca, poi la macchina da presa inquadrava un avviso con su scritto: «Hotel, 25 Cents, con acqua, 35 Cents». C’era una scala, un’altra scena che mi è costata tre giorni di lavoro perché volevo un tramonto sincronizzato con il dialogo. L’ho girata dalle parti del Ponte di Brooklyn con i grattacieli sullo sfondo e il personaggio di Fitzgerald che parla della vita a New York.

Questa scena è rimasta. È quella con i genitori della ragazza?
Si, ma è stata molto ridotta. Sul registro linguistico del tramonto, Fitzgerald parlava della vita in una grande città, delle condizioni sociali, ed è bastato un colpo di forbice, per far scomparire tutto ciò … Dopo The Naked City ero determinato a non fare più film; ma due anni e mezzo o tre anni dopo, ho accettato di fare Thieves’ Highway. Si è trattato d’un caso di emergenza: ho preparato la sceneggiatura in due settimane.

È un’ottima sceneggiatura e il film è eccellente.
Ci sono comunque delle cose che non mi piacevano: avrei voluto rendere il film più documentaristico, ma alcuni aspetti sono ben riusciti.

Alcuni giorni fa, rivedendo il film, ci siamo accorti che c’è un suo cammeo…
Lo avete notato? Si, è vero. L’attore era sparito subito prima dell’inizio della lavorazione e decisi di sostituirlo io. Dopo Thieves’ Highway scoppiò un altro scandalo. A quel punto, era stata compilata la Lista Nera, ma il direttore di produzione aveva avuto il coraggio di comprare per me i diritti di un romanzo di Albert Maltz: The Journey of Simon Mac lver. Non sospettava neanche lo scandalo che avrebbe suscitato. Iniziarono i fastidi. Parlai alla radio. Lottai. Fu una storia triste e complessa. Allora il direttore di produzione mi disse: «Togliti dai piedi, vai a Londra e subito; laggiù c’è un film da girare». E fu così che feci Night and the City.

Aveva collaborato alla sceneggiatura di Night and the City?
Sì.

È sicuramente la sceneggiatura più solida che lei abbia girato.
Anche se, in realtà, ci sono dei punti deboli. Certo, in questo film, c’è quanto io abbia fatto di meglio. Credo, soprattutto, che Widmark sia stato eccezionale.

Sì. Anche il suo personaggio era ottimo, molto nuovo e profondo.
Sì anche di questo sono contento. Ma in quel film, la recitazione di Widmark non è stata apprezzata quanto avrei sperato. Era di grandissima qualità.

Fra i suoi film è quello che preferiamo, eppure, non sembra che sia piaciuto particolarmente. In Francia se ne è parlato poco e in Inghilterra…
In Inghilterra ha fatto scandalo! Dio, l’Inghilterra! Che orrore! Non gli andava bene niente, l’ambientazione, la storia, niente! Eppure, Londra è così, ve lo assicuro; ero anche molto soddisfatto del vecchio che fa il campione di catch. Si chiamava Zbysko, ed era realmente un ex campione. Se avete tempo, vi racconterò un aneddoto interessante. Preparando il film, mi ero posto un problema: o sceglievo un attore e dovevo insegnargli il catch, oppure optavo per un lottatore e allora dovevo insegnargli a recitare. Poi cominciai a chiedere dov’era Stanislas Zbysko perché ero certo che fosse perfetto per la parte. Non l’avevo mai visto in vita mia, neanche in fotografia. Mi risposero che era morto. Ero a Londra, lontano dagli studios e per tre volte ho rispedito in aereo a Hollywood gli attori che mi avevano mandato, continuando a ripetere: «No, no, voglio Stanislas Zbysko». Era così strano! Alla fine ho telefonato a un amico giornalista a New York e gli ho chiesto se sapeva dove fosse. «È morto», mi ha risposto. «Ne sei certo?», «Mah, credo di sì …», «Trovalo». Un giorno, mi telefonò: «L’ho trovato, sto per incontrarlo». Gli chiesi di inviarmi una foto recente di Zbysko e, ricevutala, mi resi conto che era assolutamente identica all’immagine che me ne ero fatto. A Hollywood, fecero un provino a Zbysko che aveva pur sempre settant’anni: si impappinava con il testo, ma senza mai perdere dignità. Finalmente, arrivò a Londra. Non aveva mai visto una macchina da presa, ma recitava stupendamente. Era un uomo molto interessante, parlava quindici lingue e mi accompagnava sempre quando andavo a vedere i gruppi teatrali dilettanti recitare le opere elisabettiane; è una persona che adoro. Era completamente al verde e con i soldi che ha guadagnato si è comprato un piccolo allevamento di galline. È tornato negli Stati Uniti e, ogni tanto, mi scrive. Era veramente una persona straordinaria.

Si, faceva molto vecchio patriarca, vecchio saggio orientale; assomigliava ad André Gide. È incredibile che lei ne conoscesse il nome.
Stanislas Zbysko era stato campione del mondo di lotta greco-romana quando avevo cinque anni e il nome mi era rimasto impresso. Stanislas Zbysko…il suono del nome ricorda il suo aspetto.

Anche il personaggio del figlio era un personaggio di grande dignità, tipicamente orientale.
Era Herbert Lom; non vi pare che ricordasse Charles Boyer o Raymond Pellegrin?

È vero…Anche il personaggio impersonato da Gene Tierney era piuttosto nuovo e molto interessante.
Sì, la parte era un po’ breve e non era necessario mobilitare Gene Tierney, ma la produzione voleva assolutamente una star femminile nel cast.

Pure il personaggio del vicino, l’artista…innamorato di Gene Tierney che, fra l’altro, forse è stato inserito per avere una sorta di happy end o, almeno, per addolcire la tristezza della fine –, era molto ben scelto.
Effettivamente, il personaggio di Hugh Marlowe era stato previsto proprio per la fine!

Tuttavia, la scena in cui lotta con una pentola di spaghetti è ottima.
Si, è vero. La scena finale, invece – quando arriva al momento giusto per consolare Gene Tierney –, lascia un po’ perplessi.

Si, è vero, trovo anch’io. Ma l’idea finale, la macchinazione di Widmark per fare approfittare Gene Tierney della ricompensa promessa a chi lo denuncerà, è ottima.
Sì, è molto riuscita e corrisponde perfettamente al personaggio di Widmark.

La scena in cui aspetta la morte nella chiatta e in cui si vede il ponte in lontananza e il Tamigi per un attimo, è veramente molto poetica.
Tutta la scena è stata girata all’alba. Quel tipo di luce durava al massimo mezz’ora. Ho girato ventidue inquadrature in diciotto minuti con sei macchine da presa. Widmark usciva dal campo di ripresa di una macchina per entrare in quello dell’altra. Avevamo provato per vari giorni e Widmark è stato magnifico. Sarà un attore sprecato se continueranno a fargli fare sempre la stessa parte. Scandalizzo tutti, quando dico che se girassi Amleto lo farei fare a Widmark. Pensate che scalpore susciterei!

Pare che voglia diventare produttore di se stesso, se non l’ha già fatto.
Lo spero per lui. E sarà sempre troppo tardi. Professionalmente è una persona molto stimolante. Widmark era professore da qualche parte, in una piccola scuola. Era molto modesto, molto timido. Rimane sempre sorpreso quando gli chiedono un autografo. È il contrario del personaggio che fa abitualmente. Lo considero un amico.

È troppo presto per chiederle di parlarci di Du rififi chez les hommes?
Sì, ma posso comunque dirvi che, per me, Du rififi chez les hommes è importante a causa di L’ennemi public n° 1. Dopo la storia di L’ennemi public n° 1, i produttori francesi mi prendevano per un tipo pericoloso, si chiedevano se, qualora mi avessero affidato un film, Parigi avrebbe corso il rischio di essere bombardata o se, addirittura, non sarei andato in giro con delle bombe in tasca. Comunque sia, ora le cose sono più chiare e sono molto riconoscente al signor Bérard, il produttore di Rififi, per aver avuto il coraggio di affidarmi un film: l’ho girato e non è accaduto nulla. I rapporti fra gli Stati Uniti e la Francia sono molto «amichevoli». È il mio primo film dopo cinque anni e, amici miei, rimanere cinque anni senza girare è una cosa terribile. Non ho mai avuto tanta paura come il primo giorno di lavorazione di Rififi: dovevo comunicare con gli attori in francese, non ero certo di riuscirci e, soprattutto, dopo un lustro, la macchina da presa era una specie di mostro. Dovevo ritrovare la tecnica. Il primo giorno è stato spaventoso. Rimpiango di non aver fatto L’ennemi public n° 1. L’idea di costringere una persona non conformista all’inattività forzata è atroce. Comunque, posso parlarvi di L’ennemi public n° 1. Negli Stati Uniti la Lista Nera suscita un forte scontento. È una vera montatura. Anche se una minoranza assurda, ma molto rumorosa, è riuscita a imporre il principio della Lista Nera, la popolazione è contraria. Ma è molto difficile lottare contro il clima che questi piccoli gruppi sono riusciti a creare. Però, ogni volta che qualcuno si è opposto alla Lista Nera, si è potuto dimostrare che le accuse non erano altro che una montatura. È successo, per esempio, con Born Yesterday, una commedia di Cukor. l gruppi di facinorosi si sono organizzati, hanno imposto dei picchetti e mandato in giro la gente con dei cartelli su cui era scritto: «No! In questo film sono tutti bolscevichi e sovversivi». Il pubblico…insomma, solo negli Stati Uniti, il film ha incassato quattro milioni di dollari! Prima di essere invitato in Francia a girare L’ennemi public n° 1, mi avevano chiesto di curare la regia di un’opera teatrale con Bette Davis. Lei era una delle poche a non aver paura delle minacce. Le avevano detto che non doveva lavorare con Dassin e aveva risposto: «Lavoro con chi mi pare». Odiavo quella pièce, la trovavo assurda. Spiegai al produttore cosa ne pensavo, e che accettavo di allestirla lo stesso, ma a una condizione. Il cachet non mi interessava, ma volevo che la tournée fosse più lunga del solito, che toccasse tutte le grandi città e che sul manifesto fosse scritto, a lettere cubitali «regia di Jules Dassin»: volevo di­mostrare che non sarebbe accaduto nulla. Le mie condizioni furono accettate. Abbiamo portato lo spettacolo dappertutto, con il mio nome in bella vista. Non è accaduto nulla, assolutamente nulla. Quindi, è molto triste che siano riusciti a mettere paura a della gente di qui, in buona fede, d’altra parte.

Jules Dassin è nato a Middletown, Connecticut (USA) nel 1911. Si accosta al mondo dello spettacolo partecipando ad alcune recite del Teatro Ebraico di New York, che aveva raggiunto trasferendosi nel 1936. Nel 1940 viene assunto alla radio con mansioni di sceneggiatore. Già nel 1941, però, debutta in cinema con un cortometraggio a soggetto tratto da un racconto di Edgar Allan Poe. The Tell-Tale Heart. Trasferitosi a Hollywood ottiene l’accordo per realizzare, nel 1942, in pieno periodo di propaganda anti-nazista, il suo primo film Nazi Agent, per il quale impiega uno dei maggiori attori europei o emigrati negli Stati Uniti: Conrad Veidt. Nello stesso anno realizza anche Reunion in France con Joan Crawford. Dopo un film minore, nel 1944 si impegnò in un’ardita trascrizione da Wilde: The Canterville Ghost con Charles Laughton e Margaret O’Brein. Finita la guerra, Dassin incontra Hellinger, il produttore che maggiormente crederà in lui e che gli consente di girare Brute Force nel 1947. Lo straordinario successo del film apre a Dassin le porte della produzione di «serie A», che culmina nelle altre due opere del trittico dedicato alla città e alla malavita: The Naked City del 1948 e Thieves’ Highway nel 1949. Si tratta di opere pervase di una violenza concettuale ancor prima che visi­va, che scuotono fin dalle fondamenta la convinzione del film noir così come era stato concepito negli anni Trenta e Quaranta e che sovvertono persino le leggi di successi come The Maltese Falcon (1941), di John Huston. Infatti, l’attenzione di Dassin non è rivolta ai personaggi (in genere esseri umani travolti dal moderno vortice della violenza) ma all’ambiente di questa spietata lotta per la sopravvivenza, la città, che è la scena fissa di tutti e tre i film. Una città notturna, naturalista, minacciosa, che nulla ha da spartire con la concezione espressionista della metropoli, estremamente realista, specchio del degradarsi della società americana. La strada di Dassin è in fondo il teatro di un conflitto sociale che, non potendo tradursi in lotta di classe, diviene scontro tra due sistemi di legge (quello codificato e quello della malavita) e coloro che a queste leggi non si assoggettano. Si tratta di concetti che valsero a Dassin la diffidenza della commissione McCarthy e lo costrinsero a emigrare. Dassin trovò temporaneo asilo in Inghilterra, dove, nel 1950, con Night and the City rese, se possibile, più aspra la sua polemica. Dopo un lungo silenzio riapparve quindi in Francia, nel 1955, con Du rififi chez les hommes, in cui il tono si fa più lieve. Dopo una lunga parentesi fra Italia e Francia durata fino al 1960, in cui incontrerà l’attrice Melina Mercouri che poi sposerà, realizza in Grecia Never on Sunday, una commedia che rivisita il mito di Pigmalione. La protagonista del film è naturalmente Mercouri, con cui Dassin proseguirà la sua carriera approfondendo i motivi del mito classico in film mai completamente riusciti come Phèdra del 1962. Dopo la parentesi giallorosa di Topkapi (1962), Dassin adatta un romanzo di Marguerite Duras realizzando 10.30 P.M Summer (1966), fino alla moderna traduzione del mito di Medea, realizzata nel 1978 con Melina Mercouri ed Ellen Burstyn, A Dream of Passion.

FILMOGRAFIA
1981 Circle of Two (Quei due)
1978 Kravgi gynaikon (A dream of Passion)
1974 The Rehearsal
1970 Promise at Oawn (Promessa all’alba)
1968 Uptight (Tradimento)
1968 Hamilchama al hashalom (Survival 1967, doc)
1966 10:30 PM Summer (AIIe 10.30 di una sera d’estate)
1964 Topkapi
1962 Phédra (Fedra)
1960 Pote Tin Kyriaki (Mai di domenica)
1959 La legge (The Law)
1957 Celui qui doit mourir (Colui che deve morire)
1955 Du rififi chez les hommes (Rififi)
1950 Night and the City (l trafficanti della notte)
1949 Thieves’ Highway (l corsari della strada)
1948 The Naked City (La città nuda)
1947 Brute Force (La forza bruta)
1946 Two Smart People (La taverna dei quattro venti)
1946 A Letter for Evie (Una lettera per Eva)
1944 The Canterville Ghost (Lo spettro di Canterville)
1943 Young ldeas
1942 Reunion in France (La grande fiamma)
1942 The Affairs of Martha
1942 Nazi Agent