Il Noir in Festival ricorda William Friedkin, su cui nel 1997 realizzò la prima monografia italiana

Avrebbe compiuto 88 anni il 29 agosto William Friedkin e pochi giorni dopo la Mostra di Venezia lo avrebbe degnamente festeggiato con la presentazione fuori concorso del suo nuovo film L’ammutinamento del Caine: Corte Marziale. L’occasione sarà più triste e la sua sedia rimarrà vuota in quel Palazzo del Cinema che aveva eletto a sua seconda casa, dove nel 2013 gli era stato conferito il Leone d’oro alla carriera e dove aveva portato i suoi ultimi, straordinari lavori: Killer Joe (2011) e lo sconvolgente documentario The Devil and Father Amorth (2017).

Per tutti Bill Friedkin era l’autore de L’esorcista (1973), il film più terrorizzante di sempre, quello che portava il Male dentro le nostre vite quotidiane proprio come accadeva a Ellen Burstyn alle prese con la possessione che entrava nel corpo della sua amatissima figlia, la giovanissima Linda Blair. Se quello fu il suo momento di massima popolarità, in verità la sua carriera era cominciata molto prima e oggi viene ricordato come uno dei giganti del cinema americano, un precursore e un maestro tra quelli che trasformarono Hollywood negli anni ’70. Friedkin non è mai stato un autore facile, non ha mai cavalcato le mode, si è imposto per uno stile rigoroso e personale, assistito da grande maestria tecnica e da un impegno ideologico poco usuale quanto spesso scomodo. Del resto proprio L’esorcista gli fruttò moltissimi guai con la censura (il director’s cut con 11 minuti di scene tagliate si è visto solo nel 2000) e uguale sorte toccò qualche anno dopo al notevole Cruising con Al Pacino, furiosamente attaccato da tutte le associazioni gay perché ritenuto retrivo e fascista. Niente di tutto questo caratterizzava l’uomo, una delle menti liberal più lucide della sua generazione, ma mai disposto a compromessi quando si parlava del male e della violenza.

Quando nel 1971 l’Academy lo ricevette con tutti gli onori assegnando ben 5 Oscar al suo Il braccio violento della legge, pochi capirono che con quel lavoro il poliziesco americano girava pagina, inseriva accenti di cronaca e verità assenti dallo schermo dai tempi del primo film noir e dettava un ritmo sincopato al montaggio e al racconto che avrebbe trasformato lo stile del genere in modo ancora attualissimo. Forse per le stesse ragioni è poi rimasto sempre un outsider inclassificabile e la seconda parte della sua carriera molto deve a sua moglie, Sheril Lansing sposata nel 1991, potentissima produttrice alla Universal.

Nato a Chicago il 29 agosto del 1935 da una famiglia di immigrati ucraini, il giovane William scala il successo come nei più classici romanzi di formazione americana: in casa ci sono pochi soldi, il ragazzo si mantiene agli studi facendo il barista, il pulitore di vetri, il fattorino. Lascia il liceo per un contratto alla locale stazione televisiva, ma in poco tempo, diventa produttore di programmi e poi regista di teleplay in diretta dirigendo oltre 2000 ore dal vivo. È una scuola che lo trasforma profondamente e gli permetterà una professionalità rara, tipica però della sua generazione, la stessa di Altman o di Penn. Il suo documentario The People Vs. Paul Crump del 1962, su un caso giudiziario che sarà riaperto proprio per merito della sua indagine, lo mette in luce e gli instilla la passione per un cinema legato alla cronaca che non lo lascerà più. Approda a Los Angeles nel 1965, continua a lavorare per la tv (dirige anche un episodio per la serie “Alfred Hitchcock presenta”) e nel ’67 debutta con il romantico Good Times che porta sullo schermo la coppia Sonny and Cher. Il risultato al box office è  più che sufficiente e il produttore Norman Lear scommette su di lui affidandogli la commedia Quella notte inventarono lo spogliarello cui segue Festa per il compleanno dell’amico Harold (1970), uno dei titoli più citati nella new wave anti-Hollywood. Un anno dopo arriva la consacrazione de Il braccio violento della legge con Gene Hackman e Roy Scheider, destinati al successo personale grazie a Coppola (il primo) e a Spielberg (il secondo).

Si è spesso scritto che dopo  L’esorcista  la carriera di Friedkin non ha mai più toccato simili vertici di qualità. In verità ciò si lega al fatto che i titoli successivi non hanno fatto centro al box office allo stesso modo, ma è  innegabile la qualità di film come il già citato Cruising (1980),  Vivere e morire a Los Angeles (1985), Rampage (1987), Jade (1995), Regole d’onore (2000), Killer Joe (2011).  Insofferente alle regole degli studios, appassionato del cinema dell’epoca d’oro (ha diretto un remake molto personale di “Vite vendute” da Clouzot), in perenne dibattito con se stesso rispetto alla formazione ebraica della sua famiglia, negli ultimi anni Friedkin si era allontanato dal cinema per seguire l’altra sua grande passione dirigendo da par suo opere liriche come il “Wozzek” di Berg per il Maggio Musicale Fiorentino, “Tannhauser”, “Salomè”. Ma al cinema è sempre tornato e non è un caso che dopo tanti copioni gettati via con insofferenza abbia voluto tornare a un’idea classica del cinema da camera come L’ammutinamento del Caine, da lui aggiornato spostando l’azione dalla seconda guerra mondiale al Golfo Persico e allo stretto di Hormuz. Amava l’Italia, adorava il buon vino, ha avuto una vita tempestosa e felice segnata da quattro matrimoni, il primo con Jeanne Moreau e l’ultimo con l’adorata Sheryl Lansing. Di sé ha detto tra l’altro: “Il giorno dopo aver vinto l’Oscar è stato l’unico in cui sono andato da uno psichiatra. Ero profondamente infelice e gli dissi che avevo vinto un Oscar e pensavo di non meritarmelo”.

Per chi, come lui, crede alla cabala, il numero 87 (i suoi anni oggi) è quello degli angeli, l’88 (quello che non raggiungerà il 29 agosto) è quello del karma. Ma il karma di William Friedkin è già scritto nella storia del cinema: il destino di un innovatore di cui solo ora misuriamo la grandezza.

Nel 1997 Noir in festival produsse con Transeuropa la prima monografia italiana, curata da Daniela Catelli, Friedkin, il brivido dell’ambiguità, in occasione dell’omaggio dedicato al regista americano, protagonista di una memorabile edizione del festival, insieme a Cristopher Lee, Peter Weller, Dario Argento, Paul Verhoeven, Jack Cardiff, James Crumley,  Charlize Theron e Casper van Dien. L’omaggio cinematografico, curato da Catelli (da leggere il suo sentito ricordo di Friedkin su ComingSoon: https://www.comingsoon.it/cinema/news/addio-a-william-friedkin-grandissimo-regista-e-grande-amico-un-ricordo/n164079/), comprese la proiezione dell’allora recente 12 Angry Men (il suo “remake” de La parola ai giurati di Sidney Lumet)  e una selezione di 10 suoi film: dal documentario The Thin Blue Line a The French Connection, da Sorcerer a The Brink’s Job, da Rampage a Jade.

Daniela Catelli, Dario Argento e William Friedkin nel 1997 a Courmayeur