L’ARCHIVIO STORICO DELL’ISTITUTO LUCE: PILLOLE A MANO ARMATA

Rapine, furti, effrazioni. E Cinema. Parrebbero due mondi distanti, eppure il legame tra Settima arte e arte della ruberia, a guardarlo con lente retrospettiva, ha radici antiche, e tante di quelle occorrenze da risultare fortissimo, quasi un rapporto tra complici. E se la storia del cinema ha inizio con un treno, è con La grande rapina al treno (1903) che il grande schermo ha il suo primo vero racconto. Da lì la rapina è divenuta una sorta di genere trasversale, tra western, gangster movie, noir. E non c’è quasi regista grande o oscuro che non si sia voluto cimentare con il furto su celluloide. L’elenco sarebbe sterminato, basta qui fermarsi alla proverbiale Rapina a mano armata di Kubrick, o al più drammatico dei furti, in Ladri di biciclette. Un’affezione, tra thrilling dell’esecuzione, denuncia del delitto, attrazione per le trame oscure, che per rimanere a Kubrick trova la profonda ragion d’essere nei due fondamentali ingredienti di un buon film: paura e desiderio.

L’Archivio storico dell’Istituto Luce, con il suo immenso tesoro di cinema, cronaca storica e memoria, torna allora a collaborare felicemente con il Noir in Festival, dedicato quest’anno al milieu delle rapine e dei grandi ladri, con una piccola collana delle sue pillole d’archivio, proprio sul tema dei colpi notevoli, dei ladri - e delle loro inseparabili guardie. A cura di Nathalie Giacobino, con il montaggio di David Paparozzi e un titolo-omaggio: Pillole a mano armata. Piccoli lampi di memoria, brevi clip da un minuto che accompagnano i film in Concorso del Noir in Festival di quest’anno.

Si parte con ‘la rapina del secolo’ a Plymouth, Massachusetts, nel 1962, con l’assalto a un portavalori e un bottino di oltre un milione e mezzo di dollari. In 48 secondi il furgone, i testimoni, un blues al pianoforte, gli identikit: la cronaca offre tutti gli ingredienti di un film classico. Se Plymouth spara, Milano risponde: nel 1958, l’assalto a un furgone per un totale di cento milioni di lire. Sintomaticamente, lo speaker Luce cita per descrivere il fatto, un film con Alec Guinnes, La signora omicidi. Un Caleidoscopio Ciak del 1964 racconta di una ‘valigia antifurto’ piuttosto singolare, a uso delle signore italiane. Mentre un altro filmato Banche al contrattacco, con voce quasi fatalista ma ironica avverte «le rapine alle banche negli ultimi tempi sono state piuttosto frequenti», e gli istituti di credito stanno adottando misure ispirate «al genio e alle scarpe di James Bond».

Nel 1972 lo speaker Luce si fa più grave, il tono cessa di essere leggero. Le rotative dei giornali ribattono giornalmente cronache di assalti riusciti o mancati, sempre più efferati e clamorosi, cui rispondere con nuovi mezzi. Ma sempre degni ‘di 007’. Si capisce allora come il sinistro, il piano oscuro, la trama misteriosa e notturna, siano entrati nell’immaginario anche culturale e fantastico degli italiani, in un modo tipico di censura e insieme di fascinazione conturbante. È così che una sensazionale pillola del 1966 ci descrive i Fumetti neri: con un tono nettamente critico, ostile, gli eroi illustrati e periodici, i Diabolik, Satanik, Kriminal, Demoniak, «i protagonisti di una colossale Bibbia gialla per poveri di spirito», e ancora «i signori del delitto, i dittatori del sadismo». Anche così muoveva i primi passi una cultura popolare di massa, che avrebbe contribuito alla mitopoiesi di un genere, e di un più vasto immaginario collettivo, quello di un Paese irrimediabilmente consapevole di furti e rapine piccole e grandi, di misteri che la storia non avrebbe risolto, di ingiustizie che le polizie non avrebbero fermato. Ma sulle strisce di carta, e sulle pellicole, quel mistero ambiguo poteva diventare quasi consolatorio, attraente, e in certi casi complice di vite quotidiane forse più serene ma altrettanto complicate di quelle di un Diabolik.

Il commentatore chiosa descrivendo la vita di questi eroi notturni «un bacio sulla bocca, una pugnalata alla schiena». Queste pillole in piccolo ci descrivono un po’ questo, quell’accoppiata tra cronaca e cultura che univa l’endiadi kubrickiana di paura e desiderio. O forse ancor meglio, quella di un disco di Dylan, Love and theft. Amore e furto.
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