Brian Yuzna, Premio Luca Svizzeretto 2020, provocato da Roberto Silvestri e Giorgio Gosetti, ha raccontato della sua passione per il cinema di genere, degli esordi da autodidatta, dei prodotti commerciali, degli anni Ottanta, degli effetti speciali e di molto altro.

«Sono un regista fuori dal giro del cinema mainstream, il che significa che la maggior parte delle mie produzioni sono piccole». Così si è presentato a Giorgio Gosetti e a Roberto Silvestri, il Premio Luca Svizzeretto 2020, Brian Yuzna che ha proseguito: «Non era questo il mio proposito. Avrei certamente voluto realizzare dei colossal, ma a quanto pare le cose sono andate diversamente. C’è un aspetto interessante che riguarda la mia biografia, ossia che ho iniziato a dirigere film che ero già trentenne. Ero sposato con figli. E questo significa che non ho mai studiato o preso lezioni di cinema. Ho imparato a realizzare lungometraggi, con la pratica, cioè facendoli. Per il mio esordio, Self Portrait in Brains, ho letto dei libri, ma per quelli successivi sono andato a Hollywood e ho imparato osservando le persone che avevo ingaggiato».

Silvestri, dopo una presentazione che Yuzna ha approvato pur con delle piccole e divertite correzioni, ha chiesto al regista indipendente per antonomasia, quale fosse la sua opinione sugli attuali registi che praticano il genere horror. Yuzna ha puntato l’attenzione su una differenza in particolare, quella tra gli effetti speciali e digitali, che a suo dire traccia un solco tra la generazione degli anni Ottanta e quella più recente.
«Gli artisti degli effetti possono infilare una mano in un calzino e fargli prendere vita. È una performance. Il digitale è animazione. Molto sofisticata, ma è animazione. E servono molte persone per creare quell’animazione. Quindi è veramente difficile farla bene senza possedere una montagna di soldi, sicuramente molti di più di quelli a disposizione dei registi indipendenti. Ed è altrettanto complicato riuscire a lavorare con quegli effetti. Ho avuto una sola esperienza con gli effetti digitali. In un film girato in Indonesia, Amphibious, nel quale avevo a che fare con uno scorpione gigante di mare che ho dovuto costruire nella giungla di Bali, con persone che non erano mai state su un set e che lavoravano sedute per terra. Ad ogni modo abbiamo costruito lo scorpione di mare gigante e servivano undici persone per farlo muovere con pompe idrauliche. Ho poi costruito uno scorpione di mare in miniatura, un modellino che potevo continuare riprendere fino a ottenere quello che più mi convinceva. Ora, con il digitale una volta che hai costruito l’animatronica, a qualcuno spetta di aggiungere la pelle, a un altro di mettere le luci e così via, fino a costruire il set. Non esiste la possibilità per una sola persona di lavorarci, ci sono dei livelli e ognuno ha un compito specifico. E a meno che uno non abbia una gran quantità di soldi e, ad esempio, non stia facendo Jurassic Park, non avrà la possibilità di vedere l’insieme, non potrà dire “cambiatelo”, perché significherebbe buttare via tutto e rifare l’intero lavoro da capo. Quindi c’è una differenza tra chi opera con la marionetta e chi con l’animazione. Penso che gli effetti digitali – ha aggiunto Yuzna – siano ottimi per cancellare le corde o le aste che servono a muovere le marionette. E che siano ottimi anche per aumentare. Così per esempio, il vero scorpione di mare che ho fatto aveva una testa enorme ma gli occhi non sembravano vivi. Ci sono delle cose che non puoi muovere velocemente con le marionette, insomma ci sono dei limiti. Questo per dire che io uso il digitale quando voglio aumentare il movimento degli occhi, della bocca».

Sollecitato da Gosetti, Yuzna ha raccontato in modo non propriamente convenzionale la provenienza della sua passione per l’horror.
«Come tanti altri, ho voluto fare i film che mi piacevano sin da bambino. Penso che sia abbastanza normale, i film che fai si basano su quelli che hai visto. Mi è sempre piaciuto l’horror e nell’arte prediligevo il surrealismo e l’espressionismo. Entrambe, sono forme d’arte oniriche. Per qualche ragione, ho iniziato a vedere film horror e forse mi hanno proprio contagiato. Ho imparato ad amare quei film e ne sono rimasto influenzato. Ovviamente mi piace tutto il cinema. Negli anni Sessanta, il cinema migliore era quello impegnato, d’autore, da Fellini a Bergman. Io adoravo quei film, ma non mi sarei azzardato a farne uno. Qui che entra in gioco il lato commerciale – ha poi chiarito Yuzna –. Quando ho iniziato a dirigere, facevo anche il produttore di me stesso. Trovavo i soldi, anche chiedendoli in prestito. Perciò non potevo proprio permettermi di fallire. Dovevo recuperare quei soldi e con i film horror, oltre al fatto che mi piaceva il genere, ero abbastanza sicuro di trovare un buon pubblico».

Alla fine qual è l’horror ideale? «Penso che la mia idea di horror – ha risposto Yuzna – si possa identificare con Re-animator di Stuart Gordon. Non so come si possa fare un film horror meglio di così. All’epoca uscirono altri due film horror importanti: La casa e Il ritorno dei morti viventi. Due lavori divertenti, terrificanti, cruenti, e poi c’erano il sesso e la morte. Così diversi eppure così simili. A me piace l’ironia. Una delle cose belle nel fare film di genere, è che una volta che hai inserito gli elementi dell’orrore che il pubblico si aspetta, sei libero di fare quello che vuoi. Penso che se un film fa sempre paura, puoi definirlo un thriller. Se a questo aggiungi un qualche tipo di fluido, sangue, sbobba o qualsiasi altra cosa, allora è un horror. E poi se aggiungi qualcosa di metallico allora inizia a essere fantascienza».