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Edizione 2012
 
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  Un testo di Michela Murgia  
 
autore
Michela Murgia
La prima volta che presentai in pubblico il mio libro d’esordio, in sala c’era uno scrittore piuttosto noto, che al termine della presentazione si avvicinò dicendo: «brava, ma ancora non ci siamo. Non sarai un vero scrittore sardo fino a quando non pubblicherai un noir». Quell’ironia seppe rivelarmi, oltre alla non comune perfidia degli scrittori, come agli occhi di tante persone la florida noiristica sarda autorizzasse a supporre un legame diretto tra l’immaginario dell’isola e gli stilemi del genere. Purtroppo io sono poco incline al noir anche da lettore, e la consapevolezza di questo limite mi ha rassegnata da subito a cercare di farmi legittimare come “pura razza scrittore sardo” per altre vie. Però sarebbe scorretto non riconoscere una verità di fondo in quella provocazione, dato che c’è qualcosa, nel modo dei sardi di percepire la realtà, che richiede registri strettamente apparentati alle atmosfere noir anche quando le narrazioni battono tutt’altre strade. L’idea di essere detentori di destini misteriosi da illuminare, di essere vittime di complotti nascosti orditi dal Fato o dai nostri vicini di casa, e la certezza granitica di avere sempre un colpevole dietro, accanto o dentro – che ci esigerà complici o carnefici al momento giusto - sorge spontanea nostro malgrado, e non riusciamo a farne senza. Probabilmente siamo un popolo che ha qualcosa da nascondere, ma non ci ricordiamo dove diavolo lo abbiamo messo. Magari gli scrittori noir servono ai sardi per rappresentare questa loro cattiva coscienza, e in tal caso io, noir o no, non credo di fare eccezione.
 
 
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