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  Cosimo Alemà: Dove noir e luminosità si incontrano  
 
 12/12/2010 
un articolo di Giulia Nardelli

Un gruppo di ragazzi, una natura baciata dal sole e il “gioco della guerra”; l’oscuro sentore che qualcuno li stia seguendo si trasforma in una reale ed estenuante caccia all’uomo condotta con tutta la violenza tipica delle azioni belliche. At the End of the Day è un noir atipico, dove la tensione incontra la delicatezza degli sguardi, dei colori e dei suoni; Cosimo Alemà, noto regista di videoclip, fonde nel suo film elementi nuovi e un racconto tipicamente noir: ne risulta un lavoro ad alta concentrazione di creatività, ricco di caratteristiche da approfondire.

Spazi aperti, contesti naturali e una diffusa luminosità non sono elementi tipici del genere noir; il tuo film, al contrario, sembra smentire questa linea di tendenza.
Nel film abbiamo cercato di andare oltre gli stereotipi del noir e dei cliché del cinema industriale; l’obiettivo della sceneggiatura (firmata da Romana Meggiolaro e Daniele Persica, oltre che da Cosimo Alemà) è stato privarsi di un elemento normalmente portante dei generi noir e horror, cioè lavorare in assenza del buio. Il film, infatti, possiede un impianto narrativo da tipico slasher americano, ma è decisamente europeo considerando l’attenzione stilistica e una sorta di libertà che percorre l’opera.

Nonostante la mancanza del buio, At the End of the Day suscita un grande senso di tensione nello spettatore: come è possibile costruire un effetto “limite” in un’ambientazione così aperta e alla luce del sole?
Nella prima parte del film non si capisce bene a cosa andranno incontro i personaggi, vengono abbozzati i loro rapporti e presentata l’ambientazione. Nella seconda parte del film si innesca un vero e proprio meccanismo di tensione che si potrebbe definire quasi western; la creazione del “limite”, di uno spazio in cui vengono inscritti i protagonisti e in un certo senso osservati, avviene attraverso una progressiva concentrazione del punto di vista, l’esposizione della situazione generale si restringe fino a divenire il racconto attraverso gli occhi della protagonista. Ciò significa che la trama si costruisce attorno a un filo teso che porta dritto alla tesi del film: non c’è speranza né via d’uscita.

At the End of the Day inizia mostrando dei ragazzi che simulano i comportamenti e le strategie adottate in guerra per poi venire catapultati in una dimensione bellica reale: che tipo di rapporto si istaura tra gioco e realtà?
Il soft air (un gioco di squadra basato sulla simulazione di tattiche militari) in cui si dilettano i protagonisti del film è emblematico; finché si tratta di un gioco, i personaggi mettono in atto tutta la loro abilità e precisione nell’usare apparecchi sofisticati e precisi, ma quando capiscono che si trovano in una situazione di guerra che va al di là del gioco tutto si rovescia: i loro avversari non utilizzano tattiche raffinate ma mezzi rudimentali per sottoporli a una violenza brutale, davanti alla quale il gruppo di ragazzi non è in grado di reagire. La finzione del soft air e il passaggio a una vera e propria guerra giocata con tutti i mezzi possibili mette in luce questo rovesciamento, che a mio parere esemplifica le idiosincrasie della società moderna.

Oltre a essere un regista, suoni in un gruppo (i Qali) e dirigi videoclip; il tuo film si apre con la proiezione di una strofa dei Soap&Skin, e la colonna sonora, a cui hanno partecipato anche i gruppi WW (Woman in the Woods) e Hammock, è composta da suoni diversi tra loro. Che ruolo ha la musica all’interno della progettazione del film?
Spesso mi capita di tradurre in immagini la musica, altre volte invece mi faccio suggestionare da un determinato brano. Il mio precedente lungometraggio (Delirium Cordia) prende il nome da un disco di Mike Patton, consistente in un’unica traccia di settantaquattro minuti, che mi ha decisamente impressionato ma che ho rielaborato, dato che a un certo punto acquisiva suoni che andavano in una direzione troppo horror rispetto al mio progetto; in questo senso sono stato suggestionato, ma al contempo ho operato anche una certa liberazione dalla musica.
La colonna sonora di At the End of the Day, invece, è strutturata in tre componenti diverse e fondamentali: da un lato, mi sono servito di sonorità senza ritmo, simili alla musica d’ambiente, e a questo proposito ho pensato che la voce di Anja Plaschg (Soap&Skin) accompagnata solo da un pianoforte fosse molto adatta e aumentasse la suggestività di alcune scene intrise di tristezza e violenza; dall’altro lato, cercavo qualcosa che trasformasse la tensione narrativa in suono, riverberi e distorsioni, e anche qualcosa che apportasse al sottofondo sonoro più musicalità, quindi ho ritenuto che, rispettivamente, le musiche di WW (Women in the Woods) e Hammock conferissero queste qualità alla colonna sonora.

Definire un proprio film in termini di genere è rischiare di perdere qualche elemento importante non rientrante nella categoria indicata; At the End of the Day ha caratteristiche dei generi noir e horror, ma è anche molto delicato, e, come tu lo hai definito, in un certo senso romantico. Cos’è per te il genere noir?
La prima cosa che mi viene in mente parlando di noir sono una certa letteratura e cinema del passato, però ciò non toglie che sia una categoria molto più amplia; basta considerare i film in programmazione in questo festival per mostrare come film molto diversi tra loro possano essere definiti e avere caratteristiche noir in modi differenti. Se però devo dare una definizione più precisa di “noir”, mi ispiro direttamente al colore a cui si riferisce: il noir parla di qualcosa di nero, o meglio, qualcosa che partorisce e accetta qualcos’altro di più oscuro al suo interno.