I mille volti di Giorgio Scerbanenco

Non molti dei lettori appassionati delle storie nere, per lo più milanesi, di Giorgio Scerbanenco, conoscono la storia della sua carriera di giornalista e di curatore editoriale e responsabile di riviste. Una carriera molto intensa, costellata di collaborazioni letterarie che poi costituirono il patrimonio narrativo a cui attinse per costruire i suoi romanzi, ma non solo. Pochi infatti conoscono la sua attività di curatore della posta del cuore di varie riviste femminili tra le più popolari negli anni dai Quaranta ai Sessanta. In quell’epoca le riviste erano il solo mezzo di diffusione culturale, di pensiero e di costumi, esistente in Italia, e il loro ruolo di formazione delle giovani generazioni, come dell’opinione pubblica era fondamentale.

Il Noir in Festival, in collaborazione con il Master in Giornalismo dell’università milanese IULM, e con Cecilia Scerbanenco, già autrice di una esaustiva biografia sul padre uscita lo scorso anno (Il fabbricante di storie. Vita di Giorgio Scerbanenco) ha organizzato un incontro per approfondire questa parte della vita professionale di Scerbanenco. Protagonisti sono stati Paolo Giovannetti (docente IULM), Giorgio Ballario (scrittore e giornalista de «la Stampa») e gli studenti del Master che hanno presentato i video realizzati a fine corso.

«Sono fiero del lavoro fatto con i ragazzi - ha esordito Paolo Giovannetti, dopo l'introduzione di Marina Fabbri -. Una quindicina di giovani aspiranti giornalisti che volevano raccontare qualcosa di importante su un autore che fondamentalmente non conoscevano. Questo, peraltro, è uno dei temi principali. Oggi Scerbanenco non è così noto dai lettori giovani. Quindi lo abbiamo studiato insieme a partire da tre punti che poi sono confluiti in altrettanti progetti: il primo di carattere critico biografico, più legato alla sua vita e alla sua esperienza letteraria; il secondo che ha per protagonista la Milano di Scerbanenco; il terzo che riguarda l’attività giornalistica in senso stretto. In quest’ultimo caso gli studenti hanno lavorato non con il video ma con del materiale d'archivio».

Dopo le presentazioni dei tre progetti, ben accolti dai relatori e dal pubblico in sala, ci si è soffermati soprattutto sul terzo contributo, quello che affrontava la carriera giornalistica di Scerbanenco e, in particolare, le sue molteplici personalità con le quali rispondeva alle donne italiane nella posta del cuore delle cosiddette riviste femminili.

Naturalmente, le risposte dell’autore di Venere privata e Milano calibro 9, viste con gli occhi di oggi, sembrano profondamente conformiste e rispettose delle convenzioni. Ma storicizzando quelle lettere e circoscrivendole all’epoca in cui furono concepite, forse, le cose possono assumere un altro aspetto. Per Marina Fabbri, ad esempio, più che soffermarsi sui consigli di fare le cassiere o le cameriere, ha maggior valore il fatto che Scerbanenco indicasse alle donne di uscire letteralmente dalla casa e quindi dal ruolo di moglie, per entrare nel mondo del lavoro, infrangendo in questo modo un vero e proprio tabù.

E su questa linea interpretativa è intervenuta anche Cecilia Scerbanco: «Le donne negli anni Cinquanta non potevano lavorare. Solo un marito incapace di mantenere la famiglia poteva permettere una cosa del genere. Perciò lavorare significava svelare la debolezza di un uomo». Mentre sul tema del matrimonio, Scerbanenco ha proseguito: «Oggi siamo abituati a considerarlo come una relazione d’amore. Sessant’anni fa era l’unico modo per una donna di sistemarsi. Quindi l’amore e il sentimento erano un lusso. Mio padre, su questo aspetto, dava delle risposte anticonformiste. Diceva esplicitamente che nel matrimonio non si trovava l’amore e che nella maggior parte dei casi era destinato a finire male».

La posta del cuore però, ha anche altri risvolti. Uno dei quali sottolineato da Giorgio Ballario: «La psicologia maschile era nota a Scerbanenco in quanto uomo. Per quanto concerne quella femminile, aveva un dialogo quotidiano con le donne ricevendo centinaia di lettere alla settimana. Rispondeva ad alcune ma probabilmente le leggeva tutte e, così facendo, sviluppava una profonda conoscenza della psicologia femminile. Tutto questo lo aiutava in parte a prendere spunto per le trame dei suoi racconti».

In chiusura è intervenuto Gianni Canova che su Scerbanenco ha scritto una tesi di laurea quando il nome di quell’autore era accompagnato da una radicata diffidenza: «Scerbanenco rappresenta ancora oggi un modello disatteso e incompreso, se non addirittura rifiutato da buona parte della cultura italiana. Quando mi laureai all’università di Milano andai incontrò a grandissime difficoltà. Dovevo andare a casa di Cecilia per leggere dei libri che nelle biblioteche non si trovavano o passare interi mesi nelle bancarelle a cercarli tra quelli usati. Durante la discussione, i professori mi guardavano come se fossi un alieno».

Infine, Canova ha proseguito mettendo in luce l’unicità di Scerbanenco: «Ha capito le cause e gli effetti del boom economico. Riesce a vedere cose che nessun altro ha intuito con quella precisione. Non dimentichiamo che l’Italia tra il 1958 e la metà degli anni Sessanta subisce una mutazione abissale trasformandosi da paese povero, agrario, con un’economia disastrata, a una potenza mondiale. Crescita, avvenuta apparentemente senza conflitti. In realtà tutto questo produce una serie di contraddizioni e di ferite che esplodono a Milano e che, appunto, Scerbanenco vede prima e meglio degli altri.
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