Mel Gibson e l’America del sottoproletariato
di Michela Greco, Cinecittà News

Videointervista
 
Giornalista Gabriella Giliberti
Autrice Margherita Bordino
Operatore di ripresa Marco Cappellesso
Post-produzione Giulio Riservato

«Quando leggo i romanzi noir, mi appassiona la loro capacità di mettere a fuoco i cambiamenti del nostro tempo. Nel libro di Peter Craig ho ritrovato il ritratto molto preciso di una certa America, l’America del sottoproletariato, degli "sfavoriti dalla vita"». Partito dal cinema d’autore e dal racconto della rivolta delle banlieue con Ma 6-T va crack-er (1997), il francese Jean-François Richet ha attraversato il cinema commerciale (con il remake Assault on Precinct 13 e i due Nemico pubblico n. 1 con Vincent Cassel) e ora inaugura il 26° Noir in Festival a Como mettendo insieme le due cose con Blood Father, in cui Mel Gibson veste i panni di «un padre che ha sbagliato tutto nell’educazione della figlia, ma che tenta in ogni modo di recuperare». L’attore australiano interpreta un ex galeotto ed ex alcolista che deve salvare la ragazza dai narcotrafficanti che vogliono ucciderla; per riuscirci dovrà fare ricorso ai contatti e alle abilità sviluppati nel corso della sua vecchia vita criminale.

Il personaggio John Link è un uomo fuori dagli schemi e insofferente alle regole, l’attore Mel Gibson è conosciuto per le sue intemperanze, ma «tutto quello che avete letto di negativo su di lui è falso - assicura Richet -. La persona che ne parla meglio è Jodie Foster, e ha ragione su tutta la linea. Al di là delle sue qualità professionali, che non sono in discussione, Mel è una persona calorosa e simpatica». Accanto a lui, figura iconica del cinema d’azione, recitano in Blood Father Diego Luna, William H. Macy, Erin Moriarty.

Il rapporto che il personaggio di Gibson ha con la figlia deriva dal fatto che, secondo il regista, «la società di oggi è più permissiva di quella di un tempo. In passato l’educazione e la scuola erano migliori, oggi si è rivolti meno verso gli altri e più verso noi stessi, anche per colpa dei social network». Nel ritrarre un difficile contesto sociale, il regista francese ha affrontato a viso aperto le grandi domande: «Oggi molti si chiedono dove stia andando l’America, il film non risponde a questa domanda, ma ci permette di comprendere la disperazione di una determinata parte del mondo. Lo abbiamo girato in una zona di frontiera, in Nuovo Messico, ma l’unico confine a cui ho pensato durante tutta la lavorazione è stato quello fra ricchezza e povertà».


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