XXV edizione
8/13 Dicembre 2015

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Le radici profonde dell’America
di Sebastiano Triulzi

In occasione della consegna del Raymond Chandler Award a Joe R. Lansdale, pubblichiamo il saggio di Sebastiano Triulzi scritto per il catalogo del Festival.

Il bellissimo documentario di Chiara Stangalino e Erminio Perocco su Joe Lansdale, intitolato Once We Were Children, offre molte chiavi di lettura per comprendere l’opera di questo scrittore americano nato a Gladewater il 28 October del 1951 e che ha vissuto tutta la sua vita, tranne che per brevi periodi, nel Texas orientale. Lo scopo degli autori era quello di raccontare un po’ la sua infanzia e il filmato riesce a mostrare come questa sia stata, sono parole di Lansdale, un trampolino da dove parte ogni suo racconto perché c’è sempre una radice biografica che è possibile rintracciare. L’essere cresciuto in una cittadina quasi non presente sulle cartine geografiche, letteralmente non nominata, fa sì che lui appartenga, come scrittore, alla provincia americana, e soprattutto a quel tipo di provincia a cui attinge a piene mani la tradizione pulp, sottogenere all’interno del quale gran parte della sua produzione letteraria viene inscritta dalla critica contemporanea statunitense.

Intervistato dalla Stangalino, Lansdale usa alcune espressioni che aiutano a capire i suoi libri, ad attraversare frontalmente alcuni temi dei suoi romanzi e a mano a mano che lo ascoltiamo ci si rende conto che il pulp e il grottesco rappresentano un suo personale sistema di difesa narrativa per poter raccontare invece quelli che sono i mostri e gli incubi non solo presenti nel passato e vissuti fino a ieri l’altro in America, ma che continuano a esistere, a vivere nell’oggi, nella realtà di tutti i giorni dello scrittore. Se dai suoi libri, dal ciclo del Drive-in come da quello con protagonisti Hap Collins e Leonard Pine, da Echi perduti o da In fondo alla palude o da L’anno dell’uragano, togliamo l’elemento apotropaico, esorcizzante dato dal genere pulp o grottesco, quel che troviamo sotto ha le stimmate dei sogni angosciosi, o meglio di un inquietante sonno della ragione e dell’umano: potessimo rimuovere quella trasfigurazione infantile tipica dell’immaginario fumettistico entro cui si barrica tutta la sua produzione letteraria, avremmo di fronte in realtà una serie di romanzi di un realismo impietoso e agghiacciante, e complessivamente una radiografia senza appello di sacche di ignoranza e di brutalità che c’erano negli anni passati e che persistono, che ci sono ancora nello stato del Texas come, più in generale, nella provincia americana. Invece, la poesia che promana da questo filone se vogliamo adolescenziale del fumettone, del cinema horror, del cotè fantastico, permette a Lansdale di esorcizzare il male da un lato e dall’altro di vendicarlo, di superarlo nella rappresentazione letteraria.

«Siamo nella parte più ignorante del Texas» dice lo scrittore proprio all’inizio del documentario e questa frase illumina in realtà quella che è l’ambientazione di tutti i suoi romanzi: la parte più ignorante del Texas, quella dove è nato e cresciuto lui, è piena di uomini che sono come suo padre («resta il solo eroe che ho avuto nella vita», afferma), in gamba ma maleducati, nel senso di non educati, semianalfabeti e coraggiosi. I suoi personaggi hanno questa stessa qualità, con tutto il divertimento che nasce dalla retorica razzista presente negli anni Cinquanta e Sessanta in quello spaccato d’America e non solo, che nei suoi ricordi diventa però comica e grottesca e esilarante, e si metamorfizza nella coppia gay dei suoi investigatori (per metà, lo è solo Leonard), quasi a vendicarsi delle perenni ingiustizie alle quali ha assistito, per cui in realtà è come se lui fosse uno scrittore bambino che si diverte a castigare e a riscattare con questo immaginario assurdo tutto il razzismo della sua infanzia, ancora fortemente radicato, sostiene, nella sua terra.

Dalla lettura dei suoi libri emerge chiaramente come il razzismo sia una cosa normale, lo era e lo è tutt’ora anche se le persone fanno più attenzione a non farlo emergere esplicitamente, e come lettore hai sempre l’impressione che l’America che descrive sia quella dietro l’angolo, dell’altro ieri, non lontana nel tempo, e la stessa sensazione si ha con altri sui temi fondamentali quali la violenza o le paure degli uomini. A un certo punto Lansdale parla, e sembra quasi in nuce un suo racconto, di una mamma del suo paese che si è gettata dal ponte sentendosi in colpa quando è venuta a sapere che suo figlio era gay; indica il ponte da cui si è buttata giù, e dunque ancora una volta ci troviamo dinanzi a una storia di ignoranza, di malvagità e di nulla, ingredienti che ritornano nelle disavventure dei suoi protagonisti: spesso definisce gli essere umani che vivono lì, nei suoi territori texani, e questo comprende anche la sua famiglia e dunque anche i suoi personaggi, come uomini che vengono dal nulla più assoluto, che non hanno niente dietro se non a volte ignoranza e brutalità.

Di questi, lui salva come categoria quella di cui faceva parte il padre, uomini in gamba appunto ma che fanno fatica a trovare una collocazione vincente nella vita: rivela che il padre era pieno di cicatrici sulla schiena, veniva frustato dal nonno di Lansdale quando era bambino perché andasse a lavorare nei campi; e che per arrotondare il suo stipendio di meccanico e portare qualche soldo a casa, combatteva contro il campione di box nelle fiere di paese: un bravissimo uomo che aveva però, afferma il figlio, «una retorica razzista impressionante». Ecco, la segregazione razziale è un’altra faccia di questa violenza onnipresente: l’America in cui Lansdale vive e che descrive nelle sue trame, è un’America in cui ti viene ricordato quanto sono vicini i tempi brutti, che non solo non sono trascorsi ma sono la storia di ognuno, delle persone che incontri per strada, di quelle che ricordi (come nel caso di un suo compagno che uccise il padre perché, ripete Lansdale, era esausto di botte).

In questo senso tutto è memoriale e non storico: il razzismo si configura, propriamente, come un romanzo di memorie e non potrebbe mai essere un romanzo storico; per rappresentarlo non serve tornare indietro di due secoli, bastano dieci anni e sei di nuovo nell’incubo del razzismo. Dal quale Lansdale cerca di rifuggire, o di liberarsene, o di scacciarlo, rendendolo narrativo, e non a caso per allontanarlo attinge al divertimento, all’assurdità, al paradosso, al popolare, all’abbassamento volgare, che appunto ammantano le vicende e la lingua dei suoi personaggi. È strano, perché con i suoi libri è come se avessimo un accesso, un varco verso quell’America che non si presenta, che fa finta di non aver vissuto la segregazione razziale e la violenza: ogni volta che lui incontra nel documentario coetanei, amici o parenti, questi parlano come se certe cose non li riguardassero, appartenessero a loro, si illudono e ci illudono che non ci siano stati quei tempi. Per questo la parte positiva dei suoi libri, quella che rimane attaccata al lettore, paradossalmente è la realtà stessa, nonostante sia caricata fino all’inverosimile: questo elemento fumettistico e da B-movie tipico del pulp è certo estremamente distorcente rispetto al tema e possiamo immaginare che se non avesse avuto il riferimento della letteratura cosiddetta popolare, avrebbe cercato di scrivere un’epica tragica dell’America.

L’impressione è che Lansdale non sia mai uscito dalla sala cinematografica che frequentava negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, da un edificio che aveva un ingresso secondario e un’altra biglietteria per gli afroamericani; che, insomma, è dovuto sempre passare attraverso una proiezione immaginifica dei film visti allora, che fossero divertenti, orrorifici, splatter o picareschi poco importa. Certo poi ogni suo libro ha una storia a sé, e ad esempio tanto il romanzo d’esordio, Atto d’amore (datato 1981), come anche Il lato oscuro dell’anima nascono, almeno in parte, dalle suggestioni della tesi di laurea della moglie di Lansdale, uno studio basato sul crimine giovanile, fenomeno al tempo in espansione e sul quale non poca influenza ebbe la politica economica messa in atto da Reagan. Altrove i riferimenti familiari e territoriali appaiono ancora più stringenti, pensiamo a un racconto breve e poco noto come L’ultima caccia, romanzo di formazione, uscito in un’edizione limitata nel 1998 per la Subterrean Press, che narra la storia di un ragazzo (Richard Dale) che vorrebbe diventare scrittore e della sua caccia a un leggendario cinghiale selvatico che terrorizza le paludose rive del fiume Sabine.

Ritornano qui i cronotopi classici delle forme narrative di Lansdale: la rappresentazione letteraria dello spazio è ancora il limaccioso, sporco East Texas; e quella del tempo è ancora una secca, malsana estate del ’33, in piena Depressione (biograficamente rivissuta attraverso il racconto dei genitori). Cronotopi che troveranno poi migliore esemplificazione in lavori successivi quali, ad esempio, Tramonto e polvere o In fondo alla palude: anzi proprio di quest’ultimo L’ultima caccia può essere considerato una costola distaccata, e non solo perché al giovane protagonista è concesso un cameo nel romanzo più maturo. Se ancora nel sottofondo rimane la riflessione sulla società e la cultura di un Sud macchiato dalla violenza segregazio-nista, questo racconto d’avventura, questa iniziazione alla vita adulta, tradisce da un lato l’inconscio desiderio di esaltare i valori tradizionali dei primi settler, lontani anni luce dalla mentalità puritana e colonizzatrice - e proprio quel 
rispetto implicito verso lo spirito d’indipendenza, quel plauso verso l’ostinazione nella ricerca della verità, dicono di uno spirito che ci concede ogni tanto di essere, di mostrarsi innamorato della propria terra.

Con Hap Collins e Leonard Pine invece, Lansdale ha voluto sovvertire la mentalità razzista con cui è cresciuto, o meglio ha voluto giocare col fuoco, con l’incubo peggiore dell’America bianca, quello di poter essere sodomizzato da un nero (non per nulla è anche una scena clou di Pulp Fiction). È come se l’invenzione del trash avvenisse proprio perché la realtà è trash e devi caricarla, esagerarla, farla esplodere, altrimenti il tuo racconto non sarebbe né realistico, né credibile. Ed è un modo per noi, entrando in un’altra piccola retorica, di aggirare quella più grande, la retorica dell’America, le cui vere radici sono invece, come insegna Lansdale e prima di lui tanti altri cineasti o scrittori della south culture americana, la radice razzista, la radice puritana, la radice anticulturale, la radice violenta.

Probabilmente uno dei grandi meriti di questa letteratura che trasfigura il narrato in una iperrealtà fumettistica, è che riusciamo ad apprendere di più sull’America, su questo suo cuore nero, buio e drammatico, e se nei romanzi di questo scrittore avvertiamo un senso di disagio talvolta, è dovuto al fatto che c’è, appunto, una radice veritiera: poi, il genere così popolare e grottesco aiuta a sdrammatizzare, a distorcere, a non appesantire il reale, permette di esorcizzarlo, di renderlo cantabile, narrativo addirittura, e leggibile e piacevole. I personaggi di Lansdale si muovono e parlano secondo stilemi che percepiamo oggi un po’ datati proprio perché già sentiti migliaia di volte (nella letteratura, nel cinema, nei fumetti) e sebbene alcuni siano un po’ delle macchiette appaiono inquietanti perché possiedono quella radice lì, che gli dà sostanza e forza, che è anche una radice biografica e memoriale, che stranamente affonda nella carne, nel sangue di Lansdale stesso: il quale non è uno scrittore borghese che guarda a quell’America provinciale, tragica e razzista, ma che viene da quell’America, ne è un suo prodotto, e sopra le pellicole dei film e le storie dei fumetti si è messo in salvo. Riesce a scriverne solo trasfigurandola attraverso una chiave che è la stessa con cui la leggeva probabilmente quando era bambino: e forse anche l’essere diventato un campione di arti marziali, fondatore e maestro di una scuola che mette insieme diverse forme di autodifesa chiamata Shen Chuan (è stato incluso nella hall of fame della International Martial Arts), rientra in questo tentativo di arginare e dare un ordine morale alla violenza.

Molti dei suoi protagonisti inoltre sono poveri, cercano di sbarcare il lunario, e conoscono una doppia sfortuna, quella di trovarsi in una perenne crisi economica, perché l’elemento del benessere non è lì, vicino a loro, e quella di vivere con gli afroamericani vicini, più in miseria di loro. Non a caso un altro elemento forte è la presenza, all’interno dei suoi romanzi, del maschilismo, di una sessualità volgare con un elemento fortemente fallico. Se guardiamo con attenzione, ci sono tante scene di castrazione, dove la castrazione è l’ennesima dimostrazione di questo fallico: le donne che compaiono nelle sue storie sembrano avere una sola opzione, possono scegliere tra castrare o uccidere, e null’altro: non si liberano dal maschilismo, da un pater familias, da una autorità ottusa o animale, dall’elemento mostruoso dell’uomo, se non entrando nel crimine. È come se l’atto di uccidere diventasse per qualsiasi donna il gesto liberatorio per eccellenza: rispondono con la stessa misura, con la stessa violenza con cui vengono colpite, brandendo un fucile ad esempio, e ciò crea un aspetto drammatico e allo steso tempo comico per una accentuazione tipica sua, del suo stile e del suo linguaggio iperbolico, pieno di metafore che devono dare una connotazione grottesca al mondo narrato.

Il nonno violentissimo, la madre che si uccide per il figlio gay, e mille storie simili hanno la stessa potenza devastante dei fiumi e degli uragani che attraversano e regnano alla fine sui suoi libri, un caos cieco che travolge, rompe, spazza via tutto quanto e affonda le radici nella melma, nella terra.

La tematica zombie, così connaturata alla sua produzione, è come se permettesse metaforicamente di far tornare a galla tutti gli incubi, tutta questa realtà terribile dell’America, cioè la presenza profonda del razzismo in cui i negri sono negri: e allo stesso modo funziona per la violenza, per il maschilismo, per l’ignoranza, anch’essi zombi che ritornano costantemente. Tramonto e polvere inizia con un uragano che divora tutto, e quando nel documentario ci fa vedere le foto della devastazione o spiega come gli individui spuntassero fuori dalle macerie giorni dopo, o ricorda i cadaveri scomparsi nel fiume che poi, con una sola ondata li aveva rigettati tutti, ridonandoli alla terra, per cui avevano dovuto bruciarli, allora comprendi che quello che hai letto come cliché di genere in realtà è un modo per accogliere la memoria e la realtà: e la presenza dell’uragano è anche l’immagine di un disordine continuo, di morti che ritornano costantemente in vita. I suoi temi toccano dei nervi profondi e autentici nell’immaginario statunitense: a un certo punto, Lansdale elenca le varie specie - i Dracula, gli zombie, i vampiri - e in realtà è come se usasse un’immagine per determinare i pensieri del luogo in cui abita, e poi dice che l’essere più mostruoso di tutti è l’uomo.

Lo è almeno lì, da lui, in quelle sperdute e selvagge zone dove non è riuscita ad arrivare la retorica della civiltà e dell’emancipazione, che è solo una retorica, una recita, che svela come tante conquiste americane posseggono solo una verità di facciata. E come questa non corrisponda alla verità dell’inconscio, al lato notturno, a quella America brutta, squallidissima, profondamente malata e violenta e maschilista, piena di scannati, che lui racconta nei suoi libri anche se attraverso una lente deformata. Questo nucleo d’una ferocia diffusa, questa selvatichezza dell’animo, questo grumo pauroso dove i tanti fantasmi dell’America non riescono a essere seppelliti e ritornano ostinatamente a galla, rappresentano, pur con tutti i limiti della sua scrittura, e le ripetizioni, e gli stereotipi cui s’abbandona, un basamento profondamente autentico all’interno del mondo della finzione.