XXIV edizione
9/14 Dicembre 2014

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L’ombra di Chandler

Intervista a Jefferey Deaver

di Marina Fabbri

Jeffery Deaver non è soltanto un grande maestro del thriller, è anche una persona deliziosa, un grande professionista sempre curioso e aperto ad ogni suggerimento culturale che gli offre la sua vita di globetrotter della letteratura (la sua fama è mondiale e lo porta a promuovere i suoi libri ovunque nel mondo). Noi abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo una prima volta a Courmayeur nel '97, quando venne a presentare il libro che gli ha dato la fama, Il collezionista di ossa, e ce ne innamorammo subito. La sua amicizia nei nostri confronti lo ha spinto ad accettare in seguito il nostro invito a far parte della Giuria cinema del festival nel 2006, e da allora siamo sempre rimasti in contatto. Quest’anno, che segna il ritorno del collezionista più macabro della storia del genere con la nuova avventura de L’ombra del collezionista, come tutti i suoi libri pubblicati in Italia da Rizzoli, è stato immediato pensare a lui come il Raymond Chandler Award 2014. È sempre una gioia incontrarlo, quest'anno lo è ancora di più.

Bentornato Jeffery, con il tuo nuovo libro L'ombra del collezionista torni al personaggio del serial killer che ti ha dato la fama internazionale. Perché riprendere quella storia oggi, dopo quindici anni?

I critici mi definiscono un grande manipolatore quando scrivo un libro, ma io lo considero un complimento, perciò cosa ho fatto con Il collezionista di ossa, quindici anni anni fa? Ho lasciato aperto un personaggio e delle situazioni così da poterci ritornare sopra in qualunque momento. Era arrivato il momento giusto e l'ho riportato in vita, qui il collezionista è ora di pelle, negli Stati Uniti è questo il titolo del libro, mentre da voi è stato tradotto con L’ombra del collezionista, un titolo molto appropriato del resto, perché il giovane protagonista è ispirato dal collezionista di ossa, lui non colleziona ossa ma pelle, nel senso di pelle tatuata.

Come è cambiato invece il personaggio dell'investigatore, Lincoln Rhyme, in questi quindici anni tra il primo collezionista e questo?

Come si sa il personaggio di Lincoln Rhyme è tetraplegico e, nel primo libro, aveva perfino tentato il suicidio a causa dell'estrema invalidità che gli procura la sua malattia. Ora invece è sceso a compromessi con la sua condizione e ha capito che forse le sue capacità mentali investigative sono così brillanti proprio perché non può usare il suo corpo. Così oggi è probabilmente più felice, si accontenta di avere queste mirabili capacità investigative. Devo ammettere che ho richiamato in vita il collezionista anche perché se ora Rhyme deve vivere, bisogna che abbia una motivazione per farlo, così gli ho lanciato una nuova sfida.

E la sua relazione con Amelia Sachs è cambiata?

No, in questo no, ma nel prossimo libro ho in mente di far ritornare l'ex fidanzato di Amelia che viene rilasciato dal carcere, e quindi vedremo cosa succederà in seguito a questo fatto.

Entrambe le storie, come spesso quelle dei serial killer, hanno a che fare con la comunicazione. Il serial killer sembra avere un bisogno malato di comunicare attraverso i messaggi che lascia, in questo libro addirittura sulla pelle delle vittime. Cosa significa questo per te?

Ti racconterò come mi è venuta l’idea del tatuaggio. Un giorno ero a pranzo con la mia assistente in un posto dove vado di solito e la cameriera aveva una camicia a maniche corte e su un braccio aveva un tatuaggio di tipo esotico. Io l'ho guardata a lungo senza rispondere alle sue richieste di ordinare il cibo, e alla fine ho esclamato: «Lei mi ha dato un'ottima idea su come uccidere qualcuno!».  Questa è stata un ispirazione, avrebbe potuto essere come un messaggio mistico sconosciuto che qualcuno aveva tatuato sulla pelle, e ho pensato che il mio serial killer avrebbe potuto passare dal collezionare le ossa al collezionare la pelle con i tatuaggi per lasciare i suoi messaggi alla polizia. Lincoln si trova a dover decifrare quei messaggi per risolvere il caso. Perché il serial killer ha necessità di comunicare è perché il male sfida il bene, lancia la sua ascia terrificante contro il bene, e il meglio che puoi fare è sfidare a tua volta il bene per cercare di anticipare le mosse del male.

Lincoln Rhyme non è il solo investigatore che hai creato, c’è anche Katherine Dance, peraltro anch'essa molto popolare tra i tuoi lettori. I due sono fortemente in contrasto per il tipo di approccio all'investigazione, emotivo e psicologico quello di Dance, scientifico e razionale quello di Rhyme. Quale dei due approcci preferisci, o  hai bisogno di entrambi?

Sì ho bisogno di entrambi perché il mio dovere è quello di divertire il lettore, e voglio farlo nel miglior modo che posso, ma soprattutto perché il mio campo è quello del romanzo criminale, e ci sono alcuni crimini che in realtà non vengono decifrati tanto dagli indizi, dalle prove, dalla scienza, ma più dalla psicologia.  Quando creo le storie di Katherine Dance ne tengo conto, il personaggio sa quanto sia importante la scienza forensica, ogni poliziotto ne è consapevole oggi, ma oltre a ciò lei sente che è nella mente che risiede la verità, e questo è il miglior modo per affrontare un caso. Mi piace scrivere di tutti e due i generi di crimini e di approccio ai crimini, e siccome non avrei potuto dare a Rhyme un approccio psicologico,  ho creato Katherine. Ho appena terminato un libro con lei di cui sono molto contento, si intitola Solitude Creek. È il nome di un posto che si trova in California e in cui accade qualcosa di terribile; non c’è niente di scientifico nel libro, ma Katherine impara che il colpevole è qualcuno a cui piace indurre il panico nelle persone fino a portarle a distruggersi da sole. È una storia terrificante.

In una bella intervista con Paul Simpson hai citato Wordsworth che considera la poesia «emozione ricordata con tranquillità». È anche il tuo modo di scrivere?

Sì, assolutamente. Quando ho un'idea per un libro o per un capitolo, la butto giù perché ho paura di dimenticarla (non ho più l'età) e poi faccio un passo indietro e mi chiedo quale possa essere il modo migliore di rappresentare quest'idea. Così per otto mesi preparo la struttura del libro, e alla fine di questo tempo ci ritorno sopra per fare delle modifiche, poi scrivo il libro molto rapidamente e lo metto da parte per un tempo lungo, tutto il tempo che posso. E poi lo rileggo. Generalmente i passaggi che ho scritto in uno stato emotivo forte, di paura o rabbia o altro, sono molto buoni. Quando faccio un passo indietro e li riscrivo in un modo molto distaccato ma cercando di ascoltare la possibile emozione che possono suscitare nel lettore, succede sempre che alla fine questi sono i passaggi che funzionano meglio. Perciò, senza paragonarmi in alcun modo a Wordsworth, sarebbe una forma di hybris che dai greci sappiamo bene come viene ricompensata, io preferisco farmi da parte e scrivere in modo distaccato. Specialmente se hai a che fare con la violenza. Ieri ad esempio, nel centro di Milano è avvenuto un incidente, io sono passato poco dopo il fatto e ho potuto vedere una moto bruciata in mezzo alla strada, sicuramente il conducente non era sopravvissuto, e quella vista mi ha sconvolto. Ecco, se avessi scritto in preda a quell'angoscia, non avrebbe funzionato.

A proposito di violenza, sembra strano che i tuoi libri, pur raccontando di delitti efferati, non contengano mai scene di pura violenza esplicita né di sangue, come mai?

Sì, a me non interessa. Ci sono autori, i cui nomi adesso non mi vengono in mente, che amano scrivere per scioccare il lettore, descrivendo la violenza in modo molto esplicito, inclusa la violenza sessuale o quella sui bambini. Io non credo a questo modo, a me piace Alfred Hitchcock, che era pieno di suspense. Guarda Raymond Chandler, è tutta suspense psicologica. Tu puoi assistere a una sparatoria, la gente muore nei suoi libri, ma il punto è chiedersi che cosa succederà ora o se il colpevole fuggirà. Per me questo è più sano, più catartico. Inoltre ci trovo un insegnamento artistico notevole: se tu descrivi un atto di violenza crudamente, diciamo nel capitolo tre, poi la prossima volta che il lettore ne legge ancora lo troverà un po’ meno scioccante, la terza volta lo troverà noioso e saranno dieci pagine buttate via, al lettore non importerà nulla. Mentre se fai entrare qualcuno in una stanza con un coltello in mano e la porta si chiude, noi tratteniamo il respiro. E poi vediamo il corpo, e il detective che cerca di catturare il colpevole, poi lui appare con il coltello in mano alle spalle del detective e fine del capitolo. Questa è suspense, non è gore, non hai bisogno di vedere il sangue.

Hai nominato Raymond Chandler, e nel suo nome vieni premiato a Courmayeur. È uno scrittore che continua a ispirarti ancora oggi e se sì perché?

Penso sia facile ammettere che le mie trame sono molto diverse dalle sue. Io sono molto legato alla struttura della trama e amo doppie e triple sottotrame che si intrecciano contemporaneamente. Lui non procedeva così. Le sue storie erano affascinanti, ma non faceva il tipo di romanzo a orologeria come possono essere i miei.

Chandler, però, mi ispira ancora oggi per la sua profondità psicologica, quello che porta nei personaggi e nelle loro motivazioni è straordinario e ti spiego perché. Da una parte per via del suo stile. Dall'altra perché Chandler ha detto che uno scrittore di crime fiction deve eccedere la formula ma non romperla, e questo io lo tengo in mente sempre, ogni giorno, perché voglio spingermi ogni volta più in là nella scrittura di genere ma non voglio andare così lontano fino a distruggere un genere così popolare. Chandler è stato molto influenzato da Hammett, uno scrittore meraviglioso che amo, da cui ha preso il nucleo e l'ha espanso ulteriormente. I suoi romanzi sono più brevi e non hanno la profondità psicologica di Chandler. Sam Spade è un personaggio meraviglioso, ma Philip Marlowe ha una profondità maggiore per me.

Secondo te, quale dei tuoi personaggi è più vicino a Philip Marlowe?

C'è un libro che ho scritto nel 2010, il cui titolo inglese è Edge (L'addestratore, Milano, Rizzoli, 2011) con un personaggio che lavora per il governo ma con un'agenzia privata, e il suo compito è mantenere in vita la gente. Lui è una specie di detective privato, parecchio intelligente, ma molto segreto, silenzioso. Lui è stato modellato in qualche modo su Philip Marlowe. Personalmente non amo troppo la fiction con gli investigatori privati.    

Il collezionista di ossa è diventato un film che ha fissato nel nostro immaginario per sempre Lincoln Rhyme come Denzel Washington e Amelia Sachs come Angelina Jolie. Se Hollywood adattasse questo tuo ultimo romanzo quali attori vedresti nella parte dei due protagonisti?

Sai chi mi piacerebbe che interpretasse Lincoln Rhyme? Gary Oldman. Non sarebbe adatto? E per Amelia mi piacerebbe lo facesse Natalie Portman, sarebbe una bella coppia. Credo siano già stati "accoppiati", se ricordo bene nel film di Luc Besson Léon

Dario Argento ti consegna il premio Chandler a Courmayeur, so che vi siete già incontrati a Roma, conosci il suo cinema?

Certo, e il mio film preferito dei suoi è Suspiria, uno dei grandi horror del passato. Quello che mi piace di Dario è che anche lui ha come obbiettivo quello di impegnarsi con lo spettatore. Lui ha un grande mestiere che si vede nei suoi film, è un grande regista e sento una grande affinità con lui. Ti racconto una storia su di lui. Eravamo a Roma, a presentare insieme, un mio libro e a un certo punto qualcuno dal pubblico si alzò in piedi e, puntando l'indice verso di me, disse: «Perché non condanna il suo Presidente per aver attaccato l’Iraq?». Ora, a me piace parlare di politica quando sono al bar, ma non penso che sia opportuno farlo alla presentazione di un libro, e stavo proprio cercando di spiegare questo in modo ragionevole, quando Dario si è alzato e ha urlato contro lo spettatore: «Come ti permetti di insultare il nostro ospite americano? Vergognati!». Io sono rimasto di sasso, non avrei mai avuto il coraggio di fare una cosa simile, ma lui sì. Per questo me lo porto sempre nel cuore, per questo suo gesto di protezione verso un autore americano.