XXIII edizione
10/15 Dicembre 2013

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Kenneth Branagh su Wallander
 
Nel 2009, l’attore-regista inglese Kenneth Branagh ha partecipato a una puntata del programma Times Talks condotto dal giornalista del «New York Times» Bill Carter, con cui ha parlato di Wallander, di Henning Mankell e di Delitto di mezz'estate. Quanto segue è un estratto della loro conversazione.
 
 
Conoscevi i libri di Mankell prima di intraprendere questo progetto?
Si, li avevo letti tutti.
Li avevi letti tutti per piacere personale?
Sì, unicamente per piacere personale. Mi piacciono i noir e il mondo scandinavo. Ho lavorato per anni sull'Amleto. Non è sempre necessario visitare la Scandinavia, ma io ho l'ho fatto. Mi viene in mente l'impatto del clima di questo Paese. Qualche tempo fa, ne Gli spettri di Ibsen, ho interpretato il giovane Oswald figlio, mentre Judi Dench recitava il ruolo della madre; il testo era tradotto da Michael Meyer, un uomo intelli-gente, un traduttore brillante, che ha tradotto in inglese vari lavori di Ibsen. C'è una scena con Judi, verso la fine, in cui emerge un segreto di famiglia legato alla malattia del padre, la sifilide; Oswald potrebbe aver ereditato i suoi problemi mentali, e dice alla madre: «Dammi il sole, dammi il sole». Ricordo di aver detto a Michael che la metafora era bellissima ma che non la comprendevo completamente. E lui mi ha spiegato: «Sta parlando proprio del clima. Se vivi in Norvegia, in campagna, durante l'inverno il sole si vede pochissimo e sei immerso per la maggior parte dell'anno nell'oscuri-tà». Non so se c'è qualche svedese fra il pubblico, adoro la Svezia e quello che sto per dire non intende assolutamente essere offensivo per nessuno, ma quando ho girato in Svezia, mi sono reso conto che esiste una sorta di delizia pagana nell'abbracciare l'estate, soprattutto quando arriva la festa di mezza estate, in cui tutti si sentono parte di una grande famiglia, e c'è un'atmosfera di unione e vicinanza.
È una festa che inaugura un periodo di vacanza che dura sei settimane e l'intera nazione si ferma. Tutti si fermano, si fanno un bicchierino, così mi è sembrato, fanno tardi la sera, agghindano gli alberi e si vestono in modo strano.
No, scusate, volevo dire in modo interessante, esotico, culturalmente meraviglioso! All'inizio mi sembrava tutto un po' strano, ma poi mi sono fatto un bicchierino anch'io. Gli svedesi hanno tanta voglia di stare all'aperto. I miei amici del posto mi dicevano sempre: «La Svezia non è un posto dove vivere in inverno!». E più vai a nord, più effettivamente l'inverno non è piacevole. Una volta sono stato a Gotland, l'isola che viene menzionata nei libri di Mankell, e sono andato anche a Faro, vicino Göteborg, al largo della costa orientale svedese, dove viveva Bergman. Ero lì poco prima che morisse. E devo dire che il clima è davvero glaciale! È un luogo desolato, ma è anche splendido. È interessante il fatto che quando aveva quarantasette anni Bergman si sia recato lì e abbia esclamato: «Ecco il posto adatto a me!». E infatti vi ha trascorso i successivi quaranta anni.
 
E ha fatto tutti quei film così allegri!
Esattamente. Se andate a Faro vi renderete conto di come nasca tutta la sua opera.
 
Qual è stata la tua impressione di Wallander quando hai letto i libri di Mankell? Hai stabilito un legame con la sua cupezza?
Direi di sì. Ma penso sinceramente che non sia un uomo depresso né deprimente, perché possiede una forte capacità di introspezione che proviene dal suo lavoro, dalla necessità di un'analisi profonda e di una riflessione sui comportamenti e le motivazioni umane. Parlando con i poliziotti svedesi era chiaro che spesso chi commette un delitto conosce la vittima, generalmente fa parte del suo ambiente domestico e il fatto di riuscire a scoprire rapidamente che a commetterlo sia stato la moglie, il marito, il fratello o il figlio, dipende dalla sensibilità con cui si percepiscono le motivazioni e i comportamenti dell'aggressore. Wallander possiede questa capacità e data la natura dei reati, ovviamente non c'è molto spazio per il "sole". Il suo problema è che non c'è un'alternativa al lavoro nella sua vita privata. Dovrebbe uscire dal ruolo del detective a fine giornata. Ma non lo fa. Porta con sé tutti i casi di cui si occupa, li vive in prima persona, li respira.
 
In un certo senso vive una vita a se stante.
Sì, e questo è il motivo per cui secondo me non è depresso, in realtà ha solo fatto una scelta dolorosa. Non sono sicurissimo di questo perché una delle qualità di Mankell è avvolgere il personaggio in un alone di mistero e infatti ogni lettore lo percepisce a modo suo, ciascuno ha una propria visione del personaggio. È un personaggio che si presta a molteplici interpretazioni ma ho avuto l'impressione che Wallander scelga l'esperien-za del dolore intenso, della vulnerabilità, che ha origine dalla sua vicinanza a questo tipo di mondo, perché crede che sia importante comprendere a fondo lo shock legato a questo tipo di violenze, crudeltà e bassezze; Wallander sceglie di non essere distaccato, non vuole sviluppare un atteggiamento di assuefazione o noncu-ranza rispetto a queste circostanze estreme.
 
Perché il personaggio è così abbattuto, esausto, con gli occhi arrossati?
Uno dei modi in cui mi sono preparato è stato proprio attenermi alle ore di sonno di Wallander. Henning Mankel nei suoi libri è molto specifico sui giorni, spesso una manciata, in cui il caso viene risolto. E informa il lettore su quanto Wallander riesca a dormire. Spesso si tratta di una o due ore a notte, poi si sveglia, perché è preda delle sue ossessioni; è solo da quando la moglie lo ha lasciato, e spesso non c'è neanche sua figlia; si sveglia alle tre di notte, magari con un'intuizione rispetto al caso di cui si sta occupando, ed esce per andare alla stazione di polizia, senza neanche preoccuparsi di cambiarsi i vestiti. Quando giravo una scena rendendomi conto che il personaggio aveva dormito solo un'ora, dicevo alla truccatrice Camilla di cerchiare gli occhi di rosso. A un certo punto sua figlia gli dice, mentre lo abbraccia, «Papà, puzzi davvero!». Perché Wallander non si cura. È interessante, perché il fatto di non riuscire a dormire è spesso una caratteristica di Shakespeare, che nega il sonno ai suoi eroi tragici. Come succede ad esempio in quella tragedia scozzese di cui non farò il nome.
Tutti i classici sintomi che vengono sperimentati da Wallander. A proposito di quel look, Mankell ha raccontato che dopo aver scritto due o tre libri in cui il protagonista non dorme, mangia male, si cura in modo discontinuo, ha chiesto a un amico medico: «Se avesse una malattia, cosa avrebbe?» e il medico ha risposto prontamente: «Sicuramente il diabete». E Mankell ha continuato «Così gli ho dato il diabete ed è diventato ancora più popolare».
 
Secondo me è l'antitesi del detective hardboiled. È abbastanza delicato. Un po' molle, non trovi? Le sue emozioni sono quasi tangibili, è stato interessante interpretare i suoi stati d'animo?
Sì, ad esempio Wallander non è mai veramente convinto di sparare, si pone sempre il problema se deve estrarre o meno la sua arma, non è mai veramente a suo agio con la pistola. C'è un momento in uno dei suoi libri in cui gli viene di nuovo insegnato come usarla, non ama seguire i corsi di aggiornamento, sa che ogni tanto la deve impugnare ma non c'è in lui alcun orgoglio padronale, nessun atteggiamento "macho", nessun contegno pragmatico dell'uomo impegnato in un lavoro pericoloso. In questo senso è l'antitesi del concetto di hardboiled. Penso che sia incapace dell'atteggiamento tipicamente spaccone, con il bavero alzato, la cravatta allentata. Non è uno sbruffone, è solo uno che si alza la mattina senza sapere bene dove si trova, che arriva sul posto e si chiede cosa sia mai successo quel giorno.
Possiede una strana innocenza, e benché gran parte delle sue necessità siano dimenticate, abbandonate, messe da parte, c'è molto spazio in lui per essere un detective straordinario e intuitivo.
 
Certo, è molto capace ma non è in forma. C'è una scena in cui non riesce a tenere il passo con un altro uomo che fa jogging, è esausto.
È una scena che ha scritto Rick Cotton nel copione, ed è tratta molto bene dai romanzi. Mankell è bravissimo nell'illustrare la risoluzione del giallo, e il lettore è invogliato a voltare le pagine dei suoi libri.
Abbiamo cercato un tipo di realtà che scaturisca dalla nostra comprensione della Svezia, quindi in generale abbiamo cercato di evitare scene in cui qualcuno pronuncia frasi del tipo: «Ispettore, Lei si aspetta che risponda alle sue domande, vero?», o assume atteg-giamenti innaturali di questo genere. È facile scadere nel prototipo del "giallo"; anche noi abbiamo corso questo pericolo, abbiamo detto no, così non si può fare, facciamo un passo indietro. Riflettiamo su quel che abbiamo: Wallander è distrutto, non ha dormito. L'altro personaggio invece è arrabbiato, sprezzante e vedendo lo stato di Wallander presume che non sia al massimo. Inizia a fare jogging e Wallander deve interrogarlo correndo al suo fianco. È molto indicativo di come è fatto Wallander: c'è qualcosa di tenero in lui ma anche di estremamente patetico. Ansima, sbuffa, cercando di ricordare le domande importanti e questo suo modo di essere goffamente eccentrico lo rende davvero unico.
 
E alla fine ha solo bisogno di un bicchiere d'acqua.
Ovviamente.
 
Hai parlato di sua figlia, credo che sia il rapporto più interessante dei libri. Ha una figlia adulta di nome Linda che ha un ruolo importante in quasi tutti i libri e spesso deve intercedere per lei. E questo lo motiva ma c'è anche una grande scena in cui ammette di essere stato un pessimo padre.
È consapevole che da un lato sta esagerando dall'altra c'è del vero. Usa una parola come "merda" per definirsi, che è colloquiale e approssimativa, ma la usa lo stesso perché è un modo per fare un passo verso di lei, e riesce a pronunciarla proprio dopo l'incontro fatale e disastroso con un'altra giovane donna. Ma è toccante che sia capace di farlo, che cerchi di farlo, che gli esca quella parola. Il loro è un legame molto stretto, si vogliono bene ma non sa come dirlo. Come fare. È prigioniero del suo intelletto, non vuole improvvisamente far finta di essere diventato un padre tenero e sensibile. E anche lei è molto perspicace, quindi il modo in cui cercano di comunicare è uno degli aspetti della fiction che mi piace di più.
 
Spesso, per vari motivi, la sua emozione e la sua fragilità si percepiscono chiaramente. È un personaggio fragile.
Lo è.
 
Trovo fantastico che lanci un indizio casualmente e non lo noti se non sei molto attento. Ma questo è proprio ciò che lo rende uno scrittore tanto interessante perché descrive una persona e non un personaggio. Nei gialli spesso il detective è stereotipato, mentre Wallander non lo è affatto.
Per niente, e spesso in questo tipo di scene sembra che gli manchi uno strato di pelle per colpa del lavoro che fa e il suo personaggio, la sua personalità hanno bisogno di un approccio nudo, di spontaneità. È importante essere spontanei quando si recita con qualcun altro, ed evitare di scadere nella banalità, nello stereotipo, nella prevedibilità.
 
Avete girato queste scene in Svezia?
Sì certo, anche se oggi la magia del cinema può davvero trasformare qualsiasi parte del mondo in un altro luogo. Uno dei miei film preferiti è Narciso nero, lo hai mai visto? Diretto da Powell e Pressburger. Un film in cui l'Himalaya era a Denham, nel Buckinghamshire! Quindi tutto è possibile ma certamente è diverso recarsi nel luogo vero e cioè Ystad, dove ci siamo fatti largo fra i treni carichi di turisti tedeschi che ogni anno vanno a visitare i luoghi di Wallander, i caffé, le biblioteche, i bar e gli hotel menzionati nei libri, compreso l'indirizzo della sua abitazione che però è un autentico incubo per il vero proprietario.
 
Davvero? È un indirizzo che esiste realmente?
Sì, infatti anche noi abbiamo fatto la stessa cosa, circa un anno prima cercavamo la location e a proposito della vera abitazione di Wallander, il responsabile delle location ha detto: «Non è interessante dal punto di vista visivo, è in una zona strana della città. Dal punto di vista del personaggio è interessante perché ha la dimensione giusta ma abbiamo parlato con il proprietario e lui non...».
 
Ci vive qualcuno?
Sì, sì! Ma quando siamo arrivati e stavamo per bussare alla porta, qualcuno dall'interno ha gridato: «NO! NOOO!.... NON VIVE QUI!!!».
E mentre ce ne stavamo andando, c'era un altro gruppo di turisti tedeschi che arrivava nella direzione opposta e immagino quel tizio con un fucile ad aria compressa che non fa altro che dire alla gente: «No, no, non potete fare un filmino, non mi importa nulla che sia lo stesso indirizzo!». È come 22b Baker Street, il finto indirizzo di Sherlock Holmes.
L'inquilino diventerà matto per colpa dei tanti fan accaniti dei libri. I romanzi sono un grande successo, soprattutto in Germania e i tedeschi amano visitare i luoghi di Wallander per vederli con i propri occhi.
 
La serie ha appena vinto un premio, vero?
La serie ha vinto il BAFTA come migliore serie drammatica nella sua prima stagione e per noi è stato un risultato straordinario che ci ha incoraggiato a girare altre tre stagioni. Inoltre siamo stati nominati anche nella categoria People's choice, dove il pubblico vota il migliore programma, e siamo rimasti sorpresi perché andavamo in onda durante uno dei programmi di Simon Cowell.
 
X Factor?
Sì, X Factor, che come sappiamo è seguito da un'infinità di persone... Quindi persino poter…
 
Competere?
Sì! Un cupo svedese contro un allegro reality! Siamo rimasti davvero senza parole, e veramente entusiasti.
 
Hai mai incontrato l'autore?
Sì l'ho incontrato a Gotland, in circostanze insolite. Ero lì per partecipare alla settimana del festival delle opere di Ingmar Bergman che ogni estate veniva organizzato per una settimana nell'isola dove viveva; e ogni anno Bergman si lamentava di questo evento ridicolo, di quanto fosse scioccato e disgustato dagli ossequi e dalle manie di questi idioti che arrivavano a frotte, che non facevano altro che parlare di Luci d'inverno e Fanny e Alexander, che ci sarebbero state quattro o cinque rappresentazioni al giorno ma che lui non vi avrebbe mai partecipato. E ogni anno invece puntualmente era presente, facendo sempre la sua entrata teatrale. Si metteva nel retro della sala e diceva «No! No! Non è così ....» e Bibi Anderson e Harriet Anderson mettevano in scena degli alterchi. Si presentava a ogni evento. Io ero andato lì per presentare un film da me diretto, basato sul Flauto Magico di Mozart, che in precedenza era stato realizzato splendidamente dal Maestro Bergman. Il mio film veniva proiettato in un piccolissimo cinema del posto. A un certo punto sono andato in bagno - non mi dilungherò nei dettagli - e vicino a me c'era Henning Mankell, intento in una simile occu-pazione e quindi abbiamo iniziato a dire «Ah, Oh, che piacere....» È così che ci siamo incontrati. Nel bagno di in un cinema minuscolo in un angolo remoto della Svezia, e mentre facevamo ciò che dovevamo fare, abbiamo parlato di Mozart.
 
L'hai riconosciuto?
Sì, l'ho riconosciuto. Beh, non scendiamo nei dettagli. L'ho riconosciuto dalle foto stampate sulle copertine dei suoi libri!
 
La prima stagione ha avuto successo in Gran Bretagna?
Sì, con nostra somma gioia. Non avevamo dato nulla per scontato perché siamo consapevoli che questo genere è ricco di programmi eccellenti e il pubblico è abituato bene. Ci preoccupava un po' il fatto che il ritmo dei nostri film sia più lento. Abbiamo cercato di riempire i silenzi con lo spessore e la sostanza tipici di Mankell, ma i tempi di svolgimento sono particolari, interagisce con il pubblico in modo diverso, non c'è un montaggio veloce e appariscente, è un approccio differente e siamo rimasti sorpresi dalla reazione del pubblico. I telefilm sono piaciuti, sono abbastanza suggestivi dal punto di vista visivo e siamo stati fortunati perché uno dei nostri produttori, il danese Ole Søndberg, ci ha presentato un collega inglese che vive in Danimarca. Sei o sette mesi prima di iniziare a girare, l'ho incontrato e siamo andati molto d'accordo. Lui ha montato tutti i film di Lars Von Trier. Gli ho detto: «Temevo che non saresti stato disponibile perché so che hai avuto un anno molto impegnativo». Lui ha risposto «Sì ho appena finito di girare un film in India, che è durato tantissimo. È un film bellissimo, mi è piaciuto molto, peccato che però non lo vedrà nessuno, questo mi dispiace». «Come si chiama il film? Slumdog Millionaire!» … Gli ho risposto: «Non si sa mai, il titolo è accattivante, magari funziona!» E così Anthony Dod Mantle ha curato la fotografia del primo e del terzo telefilm della serie di Wallander, regalando la prospet-tiva di un uomo che vive da tempo in Danimarca, (c'è un'amichevole rivalità fra danesi e svedesi e fra svedesi e norvegesi), con una visione particolare della Svezia e tutte le riprese sono state caratterizzate da una grande energia.